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Ricordare la storia del Pci non è memorialismo. Sinistra dove sei?

Ricordare la storia del Pci non è memorialismo. Sinistra dove sei?Franco Angeli, "Stelle", 1988

1921-2021 L’errore, dopo l’89, non fu di cambiare nome, ma di perdere di vista l’obiettivo, mutuando quello liberale. La crescita non avrebbe garantito nulla, se non a vantaggio del capitale

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 23 gennaio 2021

Certo, il comunismo è «roba d’altri tempi», ormai, ed è inutile «rivangare il passato» (solo un socialista come Claudio Martelli può continuare a dire che avevano ragione quelli di allora). Eppure, se c’è una ragione per cui nacque il PCdI fu proprio perché i socialisti di allora non seppero farsi carico non tanto della «spinta rivoluzionaria» del movimento operaio, quanto delle rivendicazioni di operai, braccianti e contadini, delle masse proletarie insomma. Marx, molto hegelianamente, era rimasto affascinato dalla prima comune di Parigi, quella del 1793, e dalla rivoluzione francese, perché vi aveva visto la presa del potere di una classe su un’altra (era la prima volta della storia che un rovesciamento aveva una base di classe). E aveva pensato che, ora che la classe borghese soggiogava la classe operaia, la soluzione era la rivoluzione proletaria e la sparizione delle classi (si scusi la semplificazione). Il capitalismo si è affermato grazie allo sfruttamento, se ne è alimentato.

La democrazia liberale, in Italia come altrove, era a quei tempi una faccenda in mano ad un’élite borghese, dove la progressiva cooptazione (di parte) dei ceti popolari non avvenne, nemmeno con l’affermazione dei partiti popolari, quello socialista e quello cattolico (di Sturzo), nel 1919. Quell’affermazione non fu sufficiente ad offrire condizioni di vita e di lavoro decenti per quelle masse, che si rivoltarono. E i socialisti non seppero guidare quella rivolta in chiave progressiva. Poi, certo, venne il fascismo, quando la borghesia industriale e agraria preferì la soluzione autoritaria al gradualismo giolittiano. Gramsci, pur ancora convinto della via leninista (la rivoluzione), capì che in Italia non era solo una questione operaia, ma anche contadina e, quindi, meridionale. Il PCdI nacque perseguendo questa opzione che non fu mai del partito socialista che rimase sempre giolittiano nel fondo. Con la resistenza, l’antifascismo e la nascita della repubblica prese piede l’idea di una democrazia progressiva che avrebbe potuto portare al socialismo, nelle condizioni date. Ma a cambiare fu anche il capitalismo che, pur rimanendo classista e imperialista, trovò il modo di perseguire una migliore distribuzione delle risorse.

Certo, lo fece per preservarsi e preservare la classe dominante borghese, ma nell’allargamento della sua «base sociale» al ceto medio e medio-basso vide le premesse per la sua sopravvivenza. Incalzato dal movimento operaio e dal suo partito (dove c’era). E se fu doppiezza, fu «a fin di bene»: miglioriamo le condizioni di vita delle masse qui e oggi, il socialismo sarà il prossimo passo. Per tutto il dopoguerra e fino all’89 il partito comunista perseguì questo obiettivo, nei vincoli dati, perdendo per strada perfino le ragioni di fondo che lo avevano separato dal partito socialista delle origini (che sopravvisse sempre a se stesso, in una vaga idea identitaria di socialismo «democratico», come se anche il comunismo italiano non lo fosse).

Poi, però, il capitalismo travalicò, i suoi orizzonti si aprirono all’intero mondo e riprese a correre, grazie ai proletariati della terra desiderosi di uscire dalla miseria. Il socialismo appassì perché ad appassire fu l’idea di rivoluzione, perché non era più «necessaria». Ma ci si dimenticò, invece, che era necessaria, ancora, una migliore distribuzione delle risorse e della cittadinanza democratica. L’errore, dopo l’89, non fu quello di cambiare nome, ma di perdere di vista un obiettivo, mutuando quello liberale. La crescita non avrebbe garantito nulla, se non a vantaggio del capitale, se non si fosse tenuta ferma la barra su uguaglianza e distribuzione. Il mantra di un «capitalismo ben temperato» non venne più suonato dal clavicembalo della sinistra, ormai sussunto nel paradigma liberale da cui, pure, era stato generato.

Il partito socialista si è dissolto mentre quell’altro, che aveva raccolto la sintesi vincente, si è avviluppato. Non c’è più la rivoluzione, all’orizzonte, ma non c’è neppure un obiettivo di «trasformazione della società», di lotta alle disuguaglianze (che sono ancora di classe e di condizione). Non si tratta di rovesciare la borghesia, ma di ri-garantire quel progresso equo che l’avanzata del movimento operaio aveva saputo conquistare, fino ad un punto. (E non diamo la colpa al fatto che «non c’è più la classe operaia», come se non esistessero più le masse popolari!)

Se c’è una lezione da trarre da questa storia, che guardi all’oggi, è che lo spettacolo odierno di un capo del governo che va a cercarsi una maggioranza in parlamento – nella migliore tradizione di Depretis, Crispi e Giolitti – è non tanto da associare al famigerato «trasformismo», quanto al fatto che non ci sono più i partiti (e, in particolare, uno). Un partito che, come un secolo fa, si ponga l’obiettivo di guidare i bisogni di una società più giusta raccogliendo attorno a sé quegli strati che, nella situazione attuale, sono ancora sfruttati e dal cui sfruttamento il capitalismo trae vantaggio perpetuo. Anche se non è più «comunista».

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