Visioni

Rick Estrin, il blues come filosofia di vita

Rick Estrin (il secondo da sinistra) con i NightcatsRick Estrin (il secondo da sinistra) con i Nightcats – foto di Steve Jennings

Musica Incontro con l’armonicista americano che insieme ai Nightcats ha pubblicato «The Hits Keep Coming»

Pubblicato 25 giorni faEdizione del 14 settembre 2024

«L’idea mi è venuta perché le persone me lo chiedono, forse per il nome memorabile: chiamarsi Dobie Strange non è una cosa di tutti i giorni. Sai, si ricordano di lui in quanto è stato batterista per qualche anno dentro la vecchia band Little Charlie And The Nightcats. È stato molto tempo fa, eppure è una domanda ricorrente. Kid mi ha detto che avrei dovuto provare a scrivere qualcosa su questo, quindi ho pensato a tutte le domande assurde che le persone mi sottopongono. Come quando, ancora, mi chiamano Charlie e non Rick “Hey, Charlie, come mai hai cambiato nome?». Iniziarono nel 2008 quando Charlie andò via! «Adoro questa canzone, mi diverto molto quando il nostro batterista D’Mar fa una voce alla Bootsy Collins e quando compare Charlie Musselwhite che pronuncia “Hey, whatever happened to Dobie Strange?».

LUI è Rick Estrin ed è uno dei migliori tre armonicisti al mondo e guida la stellare formazione dei Nightcats. Parla di Whatever Happened To Dobie Strange?, esaltante blues-funk dalle tinte psichedeliche che chiude The Hits Keep Coming, ultimo lavoro da studio fuori con Alligator Records che si avvia ad essere una delle migliori uscite in blues del 2024. La formazione ha vissuto una prima stagione con il nome Little Charlie And The Nightcats capitanata dal chitarrista Charlie Baty dal 1976 al 2008. Al suo ritiro dalle scene il gruppo ha mutato identificativo in Rick Estrin And The Nightcats.

L’ARMONICISTA in Whatever Happened To Dobie Strange?, gioca con ironia e rispetto sui nomi di chi c’era e non è più nel gruppo, tributando un sincero omaggio alle radici della formazione attuale, dove l’alter-ego di ieri Charlie Baty, è stato da anni sostituito dal talentuoso polistrumentista e produttore Kid Andersen, norvegese trapiantato a San Jose, California, dove ha aperto i Greaseland Studio, uno degli epicentri del blues contemporaneo. L’attitudine allegra e dissacrante di Estrin, classe 1949, è una sua innata caratteristica sia sopra che fuori dal palco acquisita durante il periodo di formazione. Nella natia San Francisco, si innamora sin da bambino sia del rock’n’roll di allora firmato da Elvis Presley e da Little Richard che suonava in radio, che dei dischi di Mose Allison, Jimmy Reed, Nina Simone e Champion Jack Dupree suonati in casa dalla sorella, convintamente beatnik. La svolta arriva con la prima armonica a quattordici anni e da quel momento inizia a farsi le ossa nei club più sanguigni della città: «Avevo diciassette anni e la domenica pomeriggio frequentavo il Double Rock, era una specie di ghetto a San Francisco, dove LC “Good Rockin’” Robinson aveva una residenza. Mi permetteva di ascoltarlo e ogni tanto suonare. Ho iniziato così. Ma fece la differenza uno spot radiofonico dove sentii che Lowell Fulson avrebbe suonato al Long Island. Decisi di andare. In quel periodo aveva appena sfornato Blues Pain, una canzone che ancora adoro. Il club era una finestra sul passato: potevi trovarci spettacoli di varietà, la band che suonava per i ballerini e un presentatore. Dopo vari personaggi, tra cui Iron Jaw Wilson che alzava le sedie coi denti, fu il turno di Lowell Fulson. Ero con un amico che mi chiese se volessi suonare. Avevo alzato il gomito e dissi si, così lui andò a parlare con il proprietario Emmett Kennedy che fu categorico: “No, non è mica una jam session”, ma Fulson era lì, ascoltò e disse: “Dai, fallo salire con me”. A quei tempi un ragazzo bianco che suonava il blues era una stranezza. Mi tirai su e il pubblico si mise a ridere, ma poi sono salito sul palco e immagino di essergli piaciuto perchè ci furono solo applausi. E così che Kennedy mi ingaggiò per aprire a Z.Z. Hill». Estrin si trovò nel posto giusto al momento opportuno: «Fu così che la mia carriera prese il via. Qualche tempo dopo mi trovavo in casa di quell’amico e sentii suonare una chitarra nell’appartamento attiguo. Ero giovane e spregiudicato e decisi di bussare a quella porta: venne ad aprirmi Fillmore Slim, facemmo amicizia e lo invitai al mio concerto del giorno dopo, dove venne assieme al grande Rodger Collins».

L’INCONTRO con il chitarrista e molto illegale Slim, protagonista tra l’altro del film documentario American Pimp del 1999, combinato con il vocalist Collins fu determinante: «Mi hanno fatto conoscere il mondo della notte e dell’intrattenimento, con Rodger siamo diventati amici: mi portava in giro in macchina, andavamo nella sua casa discografica di allora, la Galaxy Records che era parte della label Fantasy. Ero assieme a ogni tipo di artista e produttore e mi sentivo come una mosca sulla parete, potevo ascoltare e imparare molto. Rodger mi ha insegnato a editare, scrivere e rendere interessante ogni canzone, cosa significa fare una performance e esibirsi davanti al pubblico. Loro due sono stati una fonte di apprendimento per me. Di tanto in tanto, ancora ci sentiamo».

ESTRIN VIVE ogni aspetto dell’età aurea del blues della West Coast e di quello di Chicago, dove si traferisce durante il ventesimo anno d’età ed incontra Jerry Portnoy. Diventano amici e assieme percorrono le strade della Windy City. Le ance di Estrin acquisiscono forza e carattere dagli incontri con Carey Bell, col giovane Bruce Iglauer oggi suo boss all’Alligator, dai giri in automobile con Billy Boy Arnold e i fratelli Myers, dalle conversazioni con Muddy Waters e l’ipotesi non andata a buon fine di entrare nella sua band, ed ancora Sam Lay e Johnny Young. Iconico fu il passaggio a Maxwell Street: “Mi ci portò Jerry, la prima domenica mattina che passai a Chicago. Fu pazzesco, c’erano centinaia di persone che vendevano di tutto, le cose funzionavano per contrattazione e baratto e nel mezzo persone che suonavano ovunque. Tra cui il meraviglioso Blind Arvella Gray». Il rientro a San Francisco e l’incontro con Charlie Baty generarono i Nigthcats: il resto è storia di oggi, con un disco brillante e carico di groove in ogni angolo, in particolare con Somewhere Else, 911, Time For Me To Go e The Circus Is Still In Town (The Monkey Song).

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