Richier, le ibridazioni della lacerata
A Parigi, Centre Pompidou, "Germaine Richier", a cura di Ariane Coulondre L’umano mischiato all’animale e al vegetale nelle sue sculture scabre, forate, incrostate: fra surrealista e informale, la sua ricerca è parallela a quella di Giacometti
A Parigi, Centre Pompidou, "Germaine Richier", a cura di Ariane Coulondre L’umano mischiato all’animale e al vegetale nelle sue sculture scabre, forate, incrostate: fra surrealista e informale, la sua ricerca è parallela a quella di Giacometti
«Ho dipinto una grande scacchiera con i colori che mi piacevano. È un gran lavoro che ha riempito di gioia il mio cuore», scrive nel 1959 la scultrice Germaine Richier qualche mese prima di morire. Arroccati su piedistalli che li porgono ad altezza di sguardo, cinque pezzi del gioco degli scacchi sono così liberamente interpretati dall’artista: il re, con la testa di lisca di pesce, ha in mano il compasso da scultore; la regina, dal volto di teschio bovino, leva in alto le braccia a guisa di rami; il folle ha gambe umane che sorreggono un corpo animale dotato di corna e di una piccola coda; il cavaliere ha la testa da ippocampo e il ventre forato; la torre poggia su tre piedi le sue eccentriche guglie.
Ultima opera maggiore dell’artista, la Scacchiera, grande è una sintesi felice della sua attività creativa, almeno dal secondo dopoguerra in poi. Infatti, l’azione metamorfosante dell’ingrandimento (a partire della piccola versione realizzata quattro anni prima); il tema del gioco (presente già in opere come Diablo e Trottola); l’epifania del fantastico; l’ibridazione dell’umano con il mondo animale e vegetale; l’integrazione degli oggetti; l’animazione della scultura attraverso il colore; la libera disposizione degli elementi che suggerisce la mobilità nello spazio; tutto questo caratterizza l’opera di Richier che in Svizzera, nel 1945, anche grazie all’incontro con Marino Marini, decide di «voltare pagina».
Quando dopo l’esilio elvetico l’artista ritorna a Parigi, è Marini stesso a scrivere che «aveva cominciato a lacerarsi», riferendosi non solo all’aspetto fisico delle sculture, che divengono sempre più scabre, forate, incrostate; ma anche alludendo a una libera sperimentazione dei materiali che l’ha condotta a una grande inventività plastica. Nella felice alleanza di intuizione e costruzione, di tensione tra la geometria interna e l’espressività di superficie, la sua opera si apre alla polisemia, alle interpretazioni aporetiche, come nel caso del Diablo, questa figura antropomorfa che gioca col suo filo e che ispira un senso sia ludico sia demoniaco. Il tema dell’ibrido, del doppio, dell’androgino, il rapporto dell’umano con l’organico e l’inorganico, ecco: il suo lavoro è stato quello di conciliare regni differenti all’interno di un’unica forma.
La dimensione fantastica proposta da Richier è accostata spesso al surrealismo. Michel Tapié la inserisce all’interno dell’esperienza informale. È considerata, come Arp, come Brancusi, poeta della scultura, più che scultore-architetto. Ma agli occhi dei contemporanei ella incarna anche una visione tragica della storia postbellica, contemplando l’ignominia concentrazionaria e il disastro nucleare. «L’uomo è corrotto nella sua stessa carne, la scultura nella sua materia». Dice bene Ariane Coulondre, curatrice oggi dell’ampia retrospettiva dedicata a Germaine Richier, con quasi duecento opere, tra sculture, incisioni, disegni e dipinti, al Centre Pompidou fino al 12 giugno (Germaine Richier, catalogo dell’esposizione con la partecipazione scientifica del Musée Fabre, pp. 304 , ca. 330 illustrazioni, e 45,00).
Proveniente da una famiglia di mugnai e viticoltori del sud, Richier sceglie del tutto in autonomia la propria educazione, prima presso l’École de beaux-arts de Montpellier, con un allievo di Rodin, e poi a Parigi, nel 1926, dove è accettata nell’atelier di Bourdelle. Durante tutta la sua vita si confronta col ritratto. L’espressione dell’umano, e la tensione tra l’analisi del reale e la potenza dell’immaginazione, costituisce la grande linea di forza che attraversa la sua opera. Prima del conflitto mondiale la sua arte, ancora molto classica, incontra una certa attenzione internazionale. Ma è già dieci anni dopo la sua svolta creativa, nel 1955 a Londra, alla Hannover Gallery, che David Sylvester afferma: «Nessuno forse occupa un ruolo così centrale, così cruciale, nella scultura contemporanea come Germaine Richier». Rimane comunque il suo nome molto meno noto dei colleghi maschi, come Giacometti (lo ricordiamo, allievi entrambi di Bourdelle). Ci informa la Coulondre che proprio questi avrebbe imposto categoricamente al mercante d’arte Aimé Maeght di scegliere tra lui e Richier, la quale infatti rimarrà a lungo senza gallerista. E nondimeno è stata la prima artista donna esposta durante la sua vita al Musée national d’art moderne di Parigi, nel 1956.
Verso la fine del periodo bellico, dicevamo, la Richier opera in Svizzera una grande trasformazione nella sua opera, incorporando ad esempio nelle sculture dei pezzi d’albero raccolti nella foresta vallese. Realizza così il primo essere ibrido, dove la figura umana è mescolata al mondo vegetale. L’Uomo-foresta, piccolo offre uno dei rari esempi di modellino originale conservato dall’artista. I legni donano forma al torso e al braccio, e a una parte di gamba. Questo corpo così composito trova unità nel bronzo. Così come, nel 1946, l’artista persegue il tema della donna-insetto, ispirato dalla fauna della sua campagna natale (quella di Provenza). La Mantide è rappresentata poggiata sulla coda, le zampe posteriori sul piedistallo, quelle anteriori con gli artigli ripiegati in avanti, e la testa triangolare. La parte umana si denota dai seni e dal fatto di avere quattro zampe e non sei. Ingrandita, la figura diviene ancora più dinamica nella sua diagonale, come pronta a saltare, e convincente nell’incarnare una femminilità sicura di sé.
Di ritorno a Parigi, tra il 1947 e il 1948, Richier realizza Il Temporale. L’opera è un’allegoria delle forze naturali e una nuova immagine dell’uomo. La sua materia tormentata e rugosa porta con sé il dramma postbellico. Il corpo massiccio è tratto dal modello italiano Antonio Nardone, che ha posato per molte altre opere dell’artista. L’anno successivo, nel 1948, Richier offre a Il Temporale un compagno, L’Uragano. Da questo momento le due opere sono mostrate sempre insieme. E a tal punto l’artista le considera viventi, da farne realizzare, in occasione della retrospettiva al Musée national d’art moderne, delle stele in granito, come a enfatizzarne anche la caducità.
Il fotografo Brassaï così racconta l’incontro con queste due sculture nell’atelier: «Ho avuto l’impressione di entrare in questo mondo estraneo, come dopo la devastazione di un diluvio atomico. (…) Due figure monumentali scorticate, gli occhi disumanati, le braccia penzolanti, tremanti ancora di terrore, due scorticati vivi, scampati per miracolo a non si sa quale catastrofe».
In mostra viene presentato per la prima volta in un museo il Cristo d’Assy, opera realizzata nel 1950. È commissionata a Richier dal canonico Jean Devémy e pensata per essere collocata dietro l’altare maggiore della chiesa di Notre-Dame-de-Tout-Grâce, vero e proprio tempio dell’arte moderna nel territorio di Passy, in Alta Savoia. L’artista realizza un Cristo umilissimo, assoluto, che si protende in avanti come un ramo teso, secco, il cui bronzo brunito con le sue note dorate ci parla di spirito, mentre la materia tormentata ci ricorda il martirio. Richier lo definisce un «Cristo di terra, di legno e di convincimento», ma la sua rappresentazione è giudicata blasfema da gruppi cattolici tradizionalisti, e viene prima estromesso dalla chiesa, e poi ricollocato in una cappella laterale.
A difenderla vi è André Malraux, che lo indica «come il solo Cristo moderno davanti al quale si possa pregare». L’opera ritorna dietro l’altare maggiore solo nel 1969, dieci anni dopo la scomparsa dell’artista.
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