Dopo la personale Displaced (2021), Richard Mosse (Kilkenny, Irlanda 1980, vive e lavora a New York) torna alla Fondazione Mast di Bologna con l’opera Broken Spectre (2018-2022) in occasione della collettiva Vertigo – Video Scenarios of Rapid Changes. Le mutazioni della società in videoarte, curata da Urs Stahel (visitabile fino al 30 giugno). Il film immersivo di 74 minuti tratta il disastro ambientale della foresta pluviale amazzonica brasiliana, devastata dalla deforestazione attuata durante il governo Bolsonaro e della crisi umanitaria della comunità indigena Yanomami. «Forse è anche il mio primo film da attivista. Mi sono sempre considerato un artista, sostenendo come Benjamin l’autonomia dell’arte rispetto alla propaganda. Quello che mi interessa è lasciare lo spettatore con un senso di ambiguità – afferma Mosse – Nel suscitare la sua responsabilità individuale, cerco di rappresentare sia il bene che il male».

Nei suoi primi lavori fotografici si evidenzia un orientamento alla cosiddetta «aftermath photography» o «fotografia dell’indomani». Lungo il confine Messico-Stati Uniti, a Gaza, nei Balcani e in Iraq, più che sull’azione punti l’obiettivo sugli elementi simbolici della distruzione, della tragedia e della sconfitta. Cosa ha spinto il suo sguardo in questa direzione?
La «fotografia dell’indomani» è diventata molto popolare quando ero giovane, grazie ad autori come Robert Polidori. Mi è sempre interessato il paesaggio, l’ambiente costruito. Al London Consortium, dove ho conseguito il Master di ricerca in Studi culturali, l’approccio era multidisciplinare e ci si occupava di architettura, scienze, arte contemporanea. Prima di me vi aveva studiato Eyal Weizman, fondatore dell’architettura forense. Volevo capire il paesaggio come espressione di conflitti, un insieme di oggetti complessi che interagiscono fra loro. A 21 anni, a Berlino, ho lavorato come lavapiatti in un pub irlandese e con i soldi messi da parte ho acquistato una macchina fotografica e una Volkswagen e sono andato in Bosnia. Avevo l’idea di fare un progetto fotogiornalistico sulle persone scomparse, un aspetto particolarmente tragico della guerra dei Balcani. Soprattutto in Bosnia sono scomparse migliaia di persone, seppellite in fosse comuni che non erano ancora state localizzate. Ho affrontato un argomento astratto molto complesso con la fotografia che, invece, è qualcosa di molto concreto dove le cose sono davanti all’obiettivo. Lì ho capito i limiti della fotografia nel cercare di descrivere qualcosa di invisibile, come lo erano quelle persone scomparse e ho rifiutato il concetto di fotogiornalismo convenzionale. Più che dal lavoro di fotografi come Cartier-Bresson, il mio linguaggio visivo è stato influenzato da Thomas Struth che ha definito il paesaggio urbano contemporaneo e l’architettura attraverso informazioni che rivelano molto della società.

Richard Mosse

Nel proporre un’interpretazione soggettiva attraverso dispositivi tecnologici – dagli infrarossi della pellicola Kodak Aerochrome ai raggi ultravioletti, all’uso dei droni con fotocamera – che hanno permesso anche di ottenere una palette evidentemente irreale (tra le tonalità del rosa e del rosso), come nella serie «Infra» e nella videoinstallazione «The Enclave» (con cui ha rappresentato l’Irlanda alla 55/a Biennale d’arte di Venezia), documentando la guerra civile nel Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo), c’è la volontà di «mettere al muro» lo spettatore portandolo a riflettere su realtà che spesso ignora o sente distanti?
In effetti gli argomenti di cui mi occupo riguardano questioni spesso trascurate. Il mio obiettivo è di rendere le persone consapevoli, anche se rimane pur sempre arte contemporanea. Mi considero parte di quel movimento che si chiama Parafiction. Per la maggior parte si tratta di veridicità che però interpreto in maniera estetica un po’ onirica, proprio per disorientare l’osservatore. Cerco di avere un approccio meno didattico e prosaico per condurlo in uno spazio più magico, adottando quello che chiamo «aggravated media», che indica anche la frustrazione per i limiti insiti nella fotografia documentaria. Dodici anni fa, quando sono andato per la prima volta in Congo, ho cominciato a ripensare al mezzo fotografico. Mi interessava che avesse una responsabilità nella narrazione di ciò che documentava e ho sperato di poter far uscire dalla sua materialità dei sistemi invisibili che altrimenti non si sarebbero visti.
Ho utilizzato la pellicola Aerochrome che nel Congo Orientale è stata usata sia per scopi militari, per individuare il campo di battaglia, che dopo la guerra dalle compagnie che si occupano di estrazioni minerarie per segnalare i minerali rari come cobalto, uranio, tantalio di cui il paese è ricchissimo. Proprio in rapporto alla guerra e al ciclo di violenza alimentata da essa, questa tecnologia è servita per amplificare il significato del concetto stesso. Nel progetto successivo, il video immersivo Incoming, ho utilizzato una termocamera molto grande, di quelle usate in ambito militare per costruire delle mappe di calore. Ho messo insieme un po’ di soldi e me ne sono comprata una per la cui realizzazione c’è voluto un anno. Questa tecnologia permette di individuare il calore corporeo anche a 30 chilometri di distanza e viene utilizzata ai confini per gli inseguimenti di persone o per definire gli obiettivi da colpire, ma si usa anche per motivi di ricerca o salvataggio. Fondamentalmente serve per tenere fuori dall’Europa gli immigrati, un aspetto che si collega con l’incapacità di applicare le convenzioni di Ginevra, per cui dal 2014 milioni di persone in cerca di una vita migliore si sono riversate sulle sponde del Mediterraneo. La fotocamera viene utilizzata per descrivere il viaggio di queste persone. Un progetto che ha turbato molta gente perché mostra il fallimento dei cittadini europei nell’accogliere i migranti e documenta la mortalità dei profughi.

Da anni lei collabora con un team di professionisti, in particolare con il direttore della fotografia Trevor Tweeten e il compositore Ben Frost con cui ha realizzato «Broken Spectre». Ha parlato di struttura da «spaghetti western» e di luce ad ultravioletti da «notturni gotici»: durante il periodo in cui avete girato in Amazzonia, l’idea è stata elaborata seguendo una sceneggiatura o è prevalsa la componente dell’improvvisazione?
L’intuizione è sempre importante. In Amazzonia il processo è stato molto complesso perché si è svolto durante la pandemia. Il Brasile ha attraversato una crisi pazzesca, intanto perché gli indigeni sono più inclini a sviluppare patologie respiratorie e Bolsonaro aveva vietato il vaccino. Il governo è responsabile di molti atti criminali, incluso quello di aver licenziato Ricardo Galvão, direttore dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile che aveva denunciato la deforestazione dell’Amazzonia. Per questo molti funzionari non volevano parlare con me ed essere filmati, ma sono riuscito a contattare quelli più accessibili e ricorrendo a tre diversi «aggravated media» ho ottenuto lo stesso effetto del video del Congo, cercando di evidenziare degli aspetti grazie a una palette specifica di colori. Si trattava di defamiliarizzare lo spettatore rispetto all’idea dell’Amazzonia a cui era abituato.
C’è tanto antropomorfismo e tanto sentimentalismo da parte occidentale nei confronti della foresta amazzonica. Ho cercato anche di guardare quello che non era umano su base molecolare utilizzando i raggi ultravioletti. Il resto è venuto da sé. Il momento più intenso è quando Adneia, la giovane donna Yanomami grida con passione. Un momento che è arrivato solo dopo molto tempo e aver instaurato relazioni con i locali. Nel mio lavoro il 99 % è impiegato a stabilire connessioni, solo l’1% è arte.