Richard Dixon, una anatomia del linguaggio
Incontro Il traduttore che ha fatto conoscere la letteratura italiana contemporanea al pubblico anglofono
Un inglese che a 33 anni decide di trasferirsi da Londra a un borgo delle Marche è già fatto abbastanza raro, che lasci l’avvocatura per tradurre nella sua lingua madre narrativa italiana è quite interesting, direbbero oltre Manica. L’espressione si usa per riferirsi a fatti decisamente curiosi e dà il titolo anche un fortunatissimo quiz della Bbc condotto da Stephen Fry dove più che la correttezza delle risposte conta la capacità di tentare soluzioni con inventiva e spirito.
Sono doti che non mancano a Richard Dixon specializzato in cimenti ermeneutici straordinari. Il più eclatante è sicuramente quello con l’opera di Carlo Emilio Gadda. Altro fatto quite interesting è che in Inghilterra vi siano lettori di Gadda, lettori forti, spiega, che hanno voglia di esplorare le vie più oscure della letteratura internazionale. Come un italiano che legge Joyce.
La cognizione del dolore diventa The Experience of the pain nella traduzione di Dixon per la Penguin, mettere a punto questo titolo ha richiesto del tempo: perfetto in italiano portato in inglese suonava ostico, clinico (da manuale di auto aiuto psicologico);dopo aver valutato una serie di lemmi da awareness a cognition la scelta è caduta sul concetto dell’esperienza che porta alla conoscenza. Prima di lui era William Weaver il traduttore dei grandi italiani, Moravia, Morante, Calvino, Eco, Calasso, la Capria: Dixon ne ha in parte raccolto il lascito. Tradurre è stare in bilico tra fedeltà e appetibilità, con un occhio all’autore e uno all’editore. Si comincia dedicando maggiore aderenza al testo, poi c’è una fase in cui la preoccupazione principale diventa fare vendere il libro…l’equilibrio è in un crinale sottile, una linea che si raggiunge e si mantiene con l’esercizio. Devi arrivare a esprimere fedeltà al testo originale a con altri termini.
Gadda usa una lingua di parole nuove, innesti, per raccontare di un mondo che è garbuglio incomprensibile: le sue trame sono rese con grovigli linguistici. Come ne è uscito Dixon? Semplificando, trovando neologismi omologhi come nel caso di «quadrupedare», nel secondo capitolo de La cognizione del dolore, divenuto to quadrupede e quindi: quadrupeding of clogs per replicare l’effetto del fragore uno e quadruplo d’un incedere di zoccoli. «…altri termini ho fatto fatica a tradurli in modo adeguato, dice, come, ad esempio: piscivùlvolo, rigutinizzato o scarligare e in questi casi ho dovuto scegliere formule di parole più descrittive»
I bandoli, di trama senso e lingua, Gadda li chiama, o meglio li fa chiamare dall’Ispettore Ingravallo, gnommeri: vale a dire gomitoli nel romanesco da Pasticciaccio. Il gomitolo, sostengono gli inglesi nei loro dizionari etimologici, è nascosto anche dentro la parola indizio, clue, traslazione di clew, ovvero la palla di corda. Perché? Perché è svolgendo un gomitolo che Teseo uscì da un labirinto e da un bel casino.
Per Dixon in effetti tradurre è dipanare un intreccio, motivo per cui essere arrivato a questo lavoro dalla professione legale si è rivelata per lui un valore aggiunto, per certi versi una facilitazione gli atti giuridici devi tradurre una voce, quella di un cliente che reclama qualcosa. E insomma, anche l’avvocato dei Promessi Sposi azzeccava i garbugli.
Parlando con Richard Dixon del mestiere, mestiere artigiano specifica lui, del traduttore viene spesso fuori il parallelo con le professioni del cinema. Quella del doppiatore innanzitutto, perché chi traduce presta la voce e per metterla a punto è per lui essenziale conoscere quella originale degli autori. Ogni voce crea un mondo nuovo: «Devo incontrare gli scrittori e se non è possibile, almeno ascoltare registrazioni del loro parlato. Fondamentale entrare in contatto con la persona».
Capita che nascano amicizie, complicità: con Calasso il confronto era cordiale ma lui molto puntiglioso; con Umberto Eco il rapporto è stato più confidente: Dixon ha tradotto, tra l’altro, Il Cimitero di Praga e curato una revisione del Nome della Rosa destinata al pubblico americano per cui l’editore avvertiva esigenza di sfoltire le parti in latino. La traduzione di Richard Dixon è in presa diretta: il suo metodo consiste nel tradurre durante la prima lettura del testo, per conservare, e rendere interesse e curiosità per quello che vado scoprendo e restituendo così il punto di vista del lettore insieme quello dello scrittore. Chi traduce ha anche incidentalmente un compito di vigilanza, scopre errori nel testo, incongruenze temporali come fa la continuity girl, o supervisore di script che di solito è una donna e in America si chiama così.
Dixon è attento ai nomi propri, gli è capitato di cambiarli quando non aderenti al contesto spazio temporale inglese, e al ritmo che la punteggiatura dà al testo. L’esordio con gli autori italiani, dopo un’esperienza di traduzione di testi di natura giuridica, è stato col botto: Dixon infatti è stato parte del team dei traduttori dello Zibaldone di Leopardi chiamati dalla casa editrice Farrar Straus Giroux a lavorare sul compendio dell’opera del formidabile genio mai tradotto integralmente in inglese prima. «Lo Zibaldone non ha un linguaggio complesso, è il suo pensiero ad esserlo».
Un altro marchigiano messo al mondo anglofono da Richard Dixon è Paolo Volponi «non è più facile di Gadda, da tradurre. Spiega. E questo per via dei continui affioramenti poetici nei suoi testi di prosa, e per la territorialità che risuona nelle sue parole». E se anche Gadda è compenetrato nella sua Lombardia, pur camuffata da Sud America nella Cognizione del dolore (come Fois del resto, altro autore che Dixon traduce, non prescinde dalla Sardegna) con Volponi la resa della marchigianità è più difficile e ingombrante da maneggiare: «perché questa è ora la mia terra». Lo è al punto che il traduttore è anche guest della casa vacanze che gestisce con il marito a San Cristoforo, a due chilometri da Cagli, un luogo estremamente vitale culturalmente. Paese di residenze teatrali dove provare le prime degli spettacoli.
La campagna attorno alla sua casa, i tetti all’orizzonte sono quelli descritti nella Macchina Mondiale di Volponi, il testo a cui sta lavorando. «Quasi una lunga poesia, dice, dentro ci sono i paesaggi di Cagli, Cantiano, Pergola, Scheggia». Per avere un’idea della location del romanzo basta affacciarsi nel suo giardino: con uno sguardo si abbracciano i profili di quei borghi, se ne indovinano i campanili. A Cagli ai due inglesi («siamo ancora i due inglesi, ma c’è sempre stata benevolenza e accoglienza») è un via vai di turisti anglofoni.
Il gruppo degli autori marchigiani tradotti da Dixon prevede anche un poeta contemporaneo, Edoardo de Signoribus, autore di filastrocche civili, parlante una lingua di nostalgia, dispensatore di parole smante, sconnesse rime. Ognuno a modo suo ma si tratta di autori tutti intraducibili, che alla fine però riescono ad essere esportati in Inghilterra, il luogo dove i due inglesi tornano con regolarità. In marzo Dixon ha partecipato a Oxford ad un convegno tra studiosi inglesi di Gadda sulla traduzione dell’autore e la sua produzione nel mondo anglofono.
Nei progetti per il futuro di Dixon ci sono i Duchi di Urbino, di cui vorrebbe occuparsi come traduttore e scrittore, raccontare la vita della Corte, delle tante eminenti figure di donne che l’hanno abitata. «Vorrei lavorare a un componimento poetico di Giovanni Santi», trattasi del padre di Raffaello, Rafaelurbinas, come si firmava il pittore della grazia e di quella Urbino dai fasti gloriosi, passato prossimo di piombo e meccanica, presente di parassitismo immobiliarista». Vi si aggira ancora lo spirito di Carlo Bo, evocato dalla mostra che ne celebra anniversari tondi di nascita e insediamento in Rettorato, e accanto al suo quello di Giancarlo De Carlo, nei Collegi, nella Rampa, nella Data in una casa nel bosco chiamata Ca’Romanino. Tutto immerso a fine autunno, come scrive Volponi, nella nebbia che sale dal mare aureo del capitale.
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