Riccardo Tesi, a portata di dita
Folk/Il decano degli organettisti italiani ha da poco pubblicato l’album «La giusta distanza» «Il Mediterraneo come area culturale per me è una cornice, un modo per definire geograficamente il mio suono, per dargli un’identità»
Folk/Il decano degli organettisti italiani ha da poco pubblicato l’album «La giusta distanza» «Il Mediterraneo come area culturale per me è una cornice, un modo per definire geograficamente il mio suono, per dargli un’identità»
La giusta distanza: un bel titolo, e un’altrettanto bella copertina. La «giusta distanza» tra pulizia del suono e feeling, potenza folk rock e delicatezza, oltre alle ovvie considerazioni su lockdown e distanze più o meno imposte. La giusta distanza è il nuovo disco di Riccardo Tesi, decano degli organettisti italiani apprezzato in tutto il mondo, oltre quattro decenni di poesia soffiata fuori dal piccolo mantice. «La copertina è stata realizzata dal pittore toscano Enrico Pantani, uno dei miei preferiti, descrive esattamente quello che io evoco nel titolo. Il titolo si rifà alla storia dei porcospini di Shopenhauer: in inverno hanno freddo e per scaldarsi si avvicinano, ma finiscono per ferirsi fino a che non trovano la giusta distanza che permette loro di scaldarsi meno, ma senza farsi del male. Una bellissima metafora dei rapporti umani a partire da quelli di coppia, ma estendibile a tutto, sulla quale stavo molto riflettendo, ora che stiamo cercando di stabilire una nuova distanza dopo la pandemia. È un album che rispecchia fedelmente quello che sono adesso. Qui l’organetto ha un ruolo centrale, perché ho ritrovato il piacere di suonare e di studiare: nel 2010 ho sofferto di distonia focale, un problema neurologico che affligge i musicisti e porta all’interruzione dell’attività concertistica. Per molti anni il mio rapporto con lo strumento è stato faticoso. Grazie all’Istitut di Fysiologia de l’Art di Terrassa, dove mi sono curato, tutto ciò appartiene al passato e finalmente è tornata la gioia nell’abbracciarlo e farlo cantare. Molti brani del disco questa volta sono nati proprio sull’organetto, mentre di solito compongo al piano».
È un disco pieno di ospiti…
Al contrario di quello che faccio normalmente quando lavoro con Banditaliana, che quest’anno festeggia il trentennale, questa volta ho prima composto i brani e poi scelto strumenti e musicisti. Avevo voglia di usare colori diversi come nyckelharpa, cornamusa, ghironda, marimba, oud, ma soprattutto di interagire con altri pensieri musicali. Gli ospiti spesso hanno impresso una direzione diversa alle mie composizioni suggerendo soluzioni inaspettate. Che è quello che cerco nelle collaborazioni. Un esempio Ziad Trabelsi su Couscous e Fasol che ha aggiunto tutto quello che mancava a un brano che mi suonava irrisolto. Fondamentale è stato ovviamente l’apporto dell’Elastic Trio alla base del disco, con Vieri Sturlini alle chitarre e le magiche percussioni di Francesco Savoretti, con cui da anni sognavo di collaborare. Poi ci sono i brani scritti a quattro mani con Daniele Biagini, il pianista del mio progetto cameristico, che conosco da quando eravamo ragazzi. Siamo complementari. Oppure le canzoni scritte con Giua e Massimo Donno, cantautori molto diversi tra di loro ma con i quali mi sento in perfetta sintonia. Ginevra Di Marco nel disco ci regala una interpretazione da brivido di Ballata di una madre di Eugenio Bennato. Quindi tutto mi sembra molto coerente».
I brani originali sembrano attinti da una sorta di inconscio collettivo della musica: familiari, eppure nuovi…
La tradizione ha un ruolo importante nel mio pensiero musicale, molto spesso le mie composizioni partono da lì anche se in maniera trasfigurata, prendendo strade che apparentemente niente hanno a che fare con la tradizione stessa. Il Mediterraneo come area culturale per me è una cornice, un modo per definire geograficamente la mia musica, per darle un’identità. Ma si tratta pur sempre di un Mediterraneo immaginario che, come diceva Darius Milhaud, si estende da Costantinopoli a Rio de Janeiro e in quanto tale musicalmente lascia totale libertà di invenzione».
In una intervista Camilleri raccontò che s’era accorto di aver scritto in vita sua due racconti quasi identici ad altrettanti racconti di altri scrittori, senza averli mai letti. Disse anche che chi opera nell’arte è come se attingesse sempre alla medesima «biblioteca archetipale»: si prende in prestito in un’epoca un libro, poi si rimette a posto, fino al prossimo prestito in un’altra epoca…
Mi è successa la stessa cosa. In una mia composizione per solo organetto, ispirata alla musica sarda, mi è stato fatto notare che c’era la citazione di un riff di Miles Davis tratto da un disco che non ho mai avuto. Quando l’ho ascoltato sono rimasto impressionato perché in effetti il riff è molto simile anche se ci siamo sicuramente arrivati per vie molto diverse.
Hai insegnato in conservatorio. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza da un punto di vista umano e professionale, e cosa invece ti senti di segnalare come irrisolto?
La mia esperienza triennale al conservatorio di Nocera Terinese è stata esaltante e deludente allo stesso tempo. Esaltante perché essendo un’esperienza pilota si trattava di tracciare un percorso di studi serio per uno strumento popolare che era tutto da inventare. Un lavoro duro ma credo abbia gettato le basi per le generazioni future. Ho avuto la fortuna di avere studenti meravigliosi, fortissimi da un punto di vista tecnico ma con una visione molto ristretta del repertorio. Quindi ho lavorato molto sia sulla conoscenza della tradizione sia su una visione contemporanea dello strumento, sulle ultime tendenze, sulla composizione. Gli aspetti negativi sono legati alla burocrazia, alle rigidità che danneggiano l’attività didattica soffocando creatività e entusiasmo. L’altra questione è che nonostante ci sia un’apertura nei confronti delle musiche altre, continua a serpeggiare un’idea polverosa che mette al primo posto la musica classica.
Hai curato la direzione artistica del disco di due giovani organettisti, Salvatore Pace e Alessandro Gaudio. Cosa pensi del futuro del tuo strumento? Cosa consiglieresti spassionatamente a un giovanissimo nel 2023 che si incuriosisca della «scatola a bottoni col mantice»?
Salvatore Pace e Alessandro Gaudio hanno seguito il triennio con me, sono due grandi organettisti, insegnanti a loro volta, ai quali poco avevo da insegnare dal punto di vista tecnico. Abbiamo quindi lavorato molto sulla composizione, sull’arrangiamento, l’espressione. Hanno scritto una serie di brani molto interessanti e mi hanno chiesto di seguire la produzione artistica del loro Passione meridionale. Il futuro è nelle mani delle giovani generazioni che sono molto bene attrezzate, Internet è una grande risorsa. Ci sono tanti ragazzi che suonano benissimo, sono preparati a livello teorico, leggono bene la musica, improvvisano, sperimentano l’elettronica. Il mio consiglio è quello di trovare la propria cifra stilistica e suonare col cuore. La musica non è sfoggio di tecnica o gara di velocità, ma scelta accorta di note.
Sei reduce dal Perù. Un racconto con impressioni musicali e di viaggio, eri con Giua, che peraltro appare nel disco…
Abbiamo suonato a Lima al Teatro Pirandello dell’Istituto Italiano di Cultura e poi al Gran Teatro Nacional de Lima per il Festival des Alturas. Abbiamo trovato persone meravigliose, gentili, professionali. Un grazie particolare a Silvia Vallini che mi ha dato la possibilità finalmente di suonare con Giua, meravigliosa cantautrice genovese. Siamo amici da oltre vent’anni, abbiamo scritto insieme, abbiamo suonato ognuno nei dischi dell’altro, mai avevamo condiviso il palco. È stato così bello che abbiamo deciso di portare avanti lo spettacolo del duo a cui abbiamo dato il titolo Retablos, ispirato a una forma d’arte tutta peruviana.
Ricordo che sei sempre stato un fan del vecchio Ian Anderson. Che adesso se n’è uscito con un nuovo disco niente male dei suoi Jethro Tull, «Rök Flöte».
Ian Anderson è una delle ragioni principali per cui faccio musica. L’ho scoperto a 13 anni insieme a Paolo Zampini, la prima persona con cui ho suonato. Ci siamo appassionati follemente di musica ma ben presto ci siamo persi di vista, io ho fatto il mio percorso nella world music e parallelamente lui nella classica diventando il flautista di Ennio Morricone e di tanti altri. Ci siamo ritrovati da poco, abbiamo parlato a lungo di Ian Anderson e di quanto avesse influenzato le nostre vite.
LA BIOGRAFIA
Musicista, didatta, organizzatore di festival ed eventi, studioso delle culture popolari, il toscano Riccardo Tesi è una delle figure centrali del folk revival, della world music e delle note senza confini in Italia da oltre un quarantennio. Dagli inizi con Caterina Bueno alle complesse avventure tra tradizione e invenzione dei giorni nostri (Bella Ciao, Acqua, Foco e vento, Crinali) Riccardo Tesi è stato uno dei principali musicisti italiani a rivalutare, a partire dagli anni Settanta, l’organetto, evidenziandone le potenzialità come strumento nobile sia solistico, sia di accompagnamento. Collaboratore anche di cantautori come De André, Ivano Fossati, Gianmaria Testa, Tesi ha all’attivo decine di incisioni importanti, l’operato trentennale con Banditaliana, progetti in solo, in duo, in trio, col quintetto di mantici Samurai, con Trans-Europe Diatonique, con Gianluigi Trovesi e Patrick Vaillant.
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