È appena uscita da Einaudi un’antologia di 40 testi scritti nell’arco di un secolo dai maggiori graphic designer della storia. Un libro del genere mancava proprio nel panorama editoriale italiano, è infatti la prima volta in Italia che vengono raccolti in un unico volume gli scritti di graphic designer internazionali, da William Morris a Robin Kinross. Manifesti, articoli, interventi e saggi che ben descrivono il dibattito intorno a questa forma estetica di comunicazione, che tanto pervade il mondo in cui viviamo pur restando, di fatto, ancora piuttosto misteriosa e poco analizzata. A curare Filosofia del graphic design (Einaudi, 387 pagine, 26 euro) è Riccardo Falcinelli, addetto ai lavori lui stesso ma autore di altre pubblicazioni di successo, «Cromorama» e «Figure» (uscite sempre per Einaudi).

Cronologicamente l’antologia racchiude poco più di un secolo di riflessioni e teorie, dal 1895 al 1998, che tentano di rispondere a una serie di questioni: chi è un graphic designer? qual è il suo compito? Come funziona il suo lavoro e come si applica alle diverse forme e ai diversi campi del sapere, della comunicazione e del consumo? Ciò che affiora dalla lettura dei testi è il susseguirsi di poetiche diverse e anche di polemiche: una tra tutte quella legata al movimento modernista, fase storica incarnata in un stile tipografico ideale – caratterizzato dall’uso di caratteri lineari, fotografie, tinte piatte, contrasti marcati – che ha continuato a influenzare il mondo della grafica per molti decenni. Un’eredità ingombrante che, ancora oggi, condiziona alcune scelte strutturali e di gusto. Nell’antologia sono inclusi naturalmente dei classici come Marinetti («La rivoluzione tipografica»), Moholy-Nagy («Il tipofoto»), El Lissitzky («Topografia nella tipografia») o Jan Tschichold («La nuova tipografia»), scritti che hanno segnato profondamente la stagione dell’avanguardia. Cui fanno seguito altri nomi di rilievo quali Rand, Neurath, Muller-Brockman, Garland.

Meno prevedibili i nomi di autori altrettanto importanti ma meno noti ai profani, come Mehemed Fehmy Agha (art director della rivista «Vogue»), Ladislav Sutnar o Muriel Cooper, pioniera della grafica nell’era del computer, medium che ha rivoluzionato totalmente la «messa in pagina», non solo da un punto di vista tecnico ma anche concettuale. Non mancano ovviamente anche i creativi italiani: Munari, Steiner, Facetti e Giovanni Lussu, il quale teorizza che tutte le forme di scrittura siano grafica e che, viceversa, la grafica possa essere letta come una forma di scrittura.

Tra i testi recenti più significativi va segnalato quello di Michael Rock, il quale nel 1996 si sofferma sulla questione dell’autorialità del grafico, operando un parallelo anche con la cinematografica «politique des auteurs». Gli risponde due anni dopo Ellen Lupton con un testo dal titolo «Il grafico come produttore», concetto desunto da Benjamin: «Mentre il termine ‘autore’ come ‘designer’, suggerisce il lavoro cerebrale della mente, ‘produzione’ privilegia l’attività del corpo: è radicata nel mondo materiale, dà più valore alle cose che alle idee, più al fare che all’immaginare, più alla pratica che alla teoria». Del resto la quarantina di testi che compongono «Filosofia del graphic design» – alcuni dei quali tradotti per la prima volta in italiano – prendono in considerazione sia temi di carattere generale, sia questioni specifiche (dall’influenza della tradizione al testo giustificato/a bandiera, dalla pubblicità negli USA all’impaginazione di testi teatrali).

L’antologia si ferma a 25 anni fa per tre ragioni, come precisa nella sua ampia introduzione (una settantina di pagine circa) Falcinelli. La prima è che «è sempre arduo storicizzare gli anni recenti e può portare a errori di prospettiva»; la seconda è che risulta «più difficile individuare quei testi destinati al ruolo di classici»; la terza infine è che «il nuovo millennio ha visto cambiare in modo radicale il mestiere di grafico, al punto che forse non è più una professione dai confini circoscritti».

«Filosofia del graphic design» – corredata da due 32esimi di tavole a colori – è in conclusione un utile strumento per tutti gli studenti (e gli studiosi) di accademie, politecnici e università per avere un esaustivo sguardo di insieme sull’evoluzione di una disciplina proteiforme e traversale che, secondo la prospettiva allargata dei Visual studies, va intesa come una «forma visuale del contemporaneo».