Riccardo Cucchi, tutti i diritti minuto per minuto
Intervista Lasciato nel 2017 il microfono, il radiocronista si è dedicato con grande impegno nella difesa dei diritti umani a fianco di Amnesty International Italia e Sport 4 Society come presidente della giuria del premio «Sport e diritti umani»
Intervista Lasciato nel 2017 il microfono, il radiocronista si è dedicato con grande impegno nella difesa dei diritti umani a fianco di Amnesty International Italia e Sport 4 Society come presidente della giuria del premio «Sport e diritti umani»
Riccardo Cucchi è stato per 23 anni una delle voci storiche di «Tutto il calcio minuto per minuto», popolare trasmissione di Rai Radio 1 che racconta in diretta le vicende del campionato. Nella sua carriera giornalistica ha anche seguito sei campionati del mondo di calcio e otto olimpiadi. Una vita dedicata a far rivivere attraverso la radio le passioni e le vicende sportive dagli stadi di tutta Italia e del mondo.
Lasciato nel 2017 il microfono si è dedicato con grande impegno nella difesa dei diritti umani a fianco di Amnesty International Italia e Sport 4 Society come presidente della giuria del premio «Sport e diritti umani». Per Amnesty «i diritti umani hanno un ruolo vitale da svolgere nello sport che viene troppo spesso trascurato. Dalla lotta contro il razzismo, il sessismo e l’omofobia alla difesa dei diritti dei lavoratori che costruiscono stadi, lo sport e i diritti umani sono intrinsecamente legati».
«Quest’anno il premio Internazionale», racconta Riccardo Cucchi, «è andato a Gary Lineker, ex attaccante della nazionale inglese e del Barcellona mai ammonito o espulso in carriera – pensate – e oggi commentatore della BBC. Per aver espresso critiche alla politica del governo inglese contro i migranti era stato estromesso dal suo ruolo. La reazione del calcio e del mondo dell’informazione ha indotto la BBC a fare marcia indietro. Il premio nazionale», prosegue Cucchi, «è andato, invece, alla calciatrice della nazionale palestinese Natali Shaheen, la prima ad approdare in Europa, in Sardegna, per il coraggio con il quale si è battuta per il diritto delle donne palestinesi a giocare a calcio nel loro paese occupato».
Cucchi, la storia dello sport è anche la storia del potere …
Il potere ha tentato, storicamente, di utilizzare la grande forza mediatica dello sport per farne strumento di propaganda. È successo sotto il fascismo e il nazismo, è successo nei paesi dell’est prima del crollo del muro. La storia dello sport è anche la storia del tentativo del movimento di rimanere libero e indipendente dal potere. Un tentativo che non sempre è andato a buon fine. Anzi…
Oggi si parla sempre più spesso di Sportwashing con cui si cataloga chi – gruppo o stato – sfrutta lo sport per ripulire l’immagine e la reputazione agli occhi del mondo. Anche il calcio non ne è esente…
Lo sportwashing è il classico esempio di come il potere cerchi, oggi, di usare lo sport. Denaro, tanto denaro, in cambio di silenzio sulle violazioni dei diritti umani. Il Qatar ne è un esempio. Durante il mondiale abbiamo visto solo ciò che il Qatar voleva che vedessimo: stadi fantasmagorici, perfetta organizzazione, calcio delle stelle planetarie. Null’altro. Impossibile girare immagini al di fuori dei luoghi canonici, impossibile parlare dei diritti violati delle donne o della persecuzione nei confronti delle persone LGBT. Il calcio si è prestato a fare da scudo e ha persino contribuito a censurare chi voleva esprimere una posizione a favore dei diritti violati. Le immagini negate in televisione delle mani sulla bocca dei giocatori tedeschi che protestavano per la censura, abbiamo potuto vederle solo grazie alla diffusione su internet.
I giornalisti presenti ai mondiali in Qatar, a suo avviso, avrebbero dovuto fare di più per informare su quanto stava accadendo in tema di diritti civili? Ricordo che Gianni Minà, grande giornalista recentemente scomparso, venne espulso dall’Argentina ai mondiali di calcio del 1978 per aver fatto domande sui desaparecidos…
Ricordi bene. Minà fu espulso perché indagava sui desaparecidos argentini. I giornalisti non hanno avuto la libertà di fare il loro lavoro in Qatar e di indagare, per esempio, sulle migliaia di morti nei cantieri durante la costruzione di stadi infrastrutture. Veri e propri schiavi provenienti dall’Asia ai quali sono state imposte condizioni di lavoro inumane, sottopagate e senza alcuna tutela sulla loro sicurezza. Anche su questi morti innocenti è calato il silenzio. A parte rare eccezioni, penso al Guardian, pochi giornali e pochissime televisioni si sono occupate di quello che era avvenuto. I giornalisti, in Qatar, non hanno fatto sentire con forza la loro voce rivendicando il diritto a fare il loro lavoro.
Tutto ciò che successo in Qatar è ormai passato nel dimenticatoio, come spesso succede. Perché, invece, non bisogna dimenticare?
Occorre non dimenticare proprio perché il Qatar è stato il più grave tentativo, purtroppo riuscito, di complicità tra il mondo dello sport, la Fifa in questo caso, e il potere economico. Obiettivo: «usare», «sfruttare» lo sport, addomesticarlo alla volontà di chi ha in disprezzo i diritti umani. Il calcio è servito per creare una realtà, il Mondiale, capace di nasconderne un’altra che non si voleva mostrare al pubblico del pianeta. Era successo anche per i mondiali di calcio di Mosca, o per le olimpiadi di Pechino. Ma non in modo così palese e arrogante.
Rimanendo in quell’area geografica, la Lega di Serie A ha deciso di organizzare la Supercoppa Italiana in Arabia Saudita per quattro anni. Cosa ne pensa?
È una scelta sbagliata che allontana ulteriormente i tifosi di calcio italiani e che, ancora una volta, si configura come sportwashing. Non è un mistero che l’Arabia Saudita stia maturando l’idea di candidarsi ad ospitare i mondiali di calcio. E anche per questo sta acquistando a suon di dollari i più forti giocatori del mondo. Il calcio sta rinunciando a promuovere valori. Purtroppo, anche quello italiano.
Questo calcio ha sempre più bisogno di denaro e per questo si è messo in politica e in finanza. Chi guarda a questo sport ripensando ai presidenti delle società degli anni Settanta o Ottanta è in «fuorigioco», non crede?
Il calcio spreca denaro, lo consuma senza alcuna seria capacità di impresa. Anzi, il calcio è l’unica impresa che, quando i bilanci vanno in rosso, anziché ridimensionarsi cerca altri soldi. In una spirale che aggrava la situazione, falsa il mercato degli ingaggi, crea diseguaglianze sul campo e dimentica la dimensione sociale dello sport più popolare al mondo. Il calcio non è del popolo ma ha profonde radici popolari. E sono quelle che alimentano il business. Finché i tifosi non si stancheranno di pagare abbonamenti Tv e biglietti da stadio. C’è una cosa che il tifoso non accetta: che vengano calpestati i suoi sentimenti.
Altra piaga è il razzismo. Lei che ha frequentati per tanti anni gli stadi, come se ne esce?
Dal razzismo si esce solo prendendo coscienza che il fenomeno esiste ed è reale. Ogni sottostima, ogni sottovalutazione, ogni giustificazione allontanerà la soluzione. Occorre non garantire più alcuna impunità ai razzisti da stadio, fermare le partite, pensare anche – come hanno fatto in Brasile – a penalizzazioni in classifica. La maggioranza dei tifosi vuole divertirsi. Occorre che il calcio stia dalla loro parte.
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