Ricatto nel recupero crediti: certifica il falso o sei licenziato
Atipici 130 dipendenti di fatto a Intellcredit, costretti a definirsi autonomi. L’autodichiarazione avrebbe dovuto essere firmata ieri, ma il sindacato ha ottenuto un tavolo. D’Andrea (Nidil Cgil): «Problema aperto dalla legge 30»
Atipici 130 dipendenti di fatto a Intellcredit, costretti a definirsi autonomi. L’autodichiarazione avrebbe dovuto essere firmata ieri, ma il sindacato ha ottenuto un tavolo. D’Andrea (Nidil Cgil): «Problema aperto dalla legge 30»
La certificazione colpisce ancora. Questa volta i ricattati dalla norma che permette all’azienda di ottenere il contestato «bollino blu» sulla condizione lavorativa di un collaboratore attraverso una scrittura privata o un’intervista sono 130 (ma il numero potrebbe salire).
Si tratta di alcuni dei 400 operatori telefonici della Intellcredit, che si occupa di recupero crediti per conto di banche e grandi fornitori di servizi come Acea, Eni ed Enel: e che per il sindacato in molti casi svolgono di fatto lavoro dipendente. Per non perdere il posto, i collaboratori a progetto di Intellcredit tra ieri e oggi avrebbero dovuto confermare la loro falsa condizione di autonomi davanti a una Commissione di certificazione.
Ma piuttosto che cedere al ricatto hanno preferito mobilitarsi e presidiare da ieri mattina la sede della Commissione, in via Cristoforo Colombo. Per ora hanno ottenuto un colloquio con i vertici di Intellcredit. «Il presidio di oggi è andato bene – conferma Roberto D’Andrea , segretario nazionale Nidil Cgil presente alla protesta – Tra mercoledì e giovedì incontreremo i vertici dell’azienda e speriamo di poter parlare dei veri problemi di questi lavoratori. Per questa categoria il contratto a progetto è consentito, a precise condizioni, e la certificazione è una vessazione in più».
Al centro della vertenza la norma della certificazione, istituita dall’articolo 76 della legge 30 (detta anche «Biagi»): si legge nel preambolo «come maggiore tutela per le nuove tipologie contrattuali introdotte a riduzione della precarietà che poteva sorgere da un rapporto di lavoro a termine e flessibile». Ma in realtà far dichiarare ai lavoratori la loro condizione tramite scrittura privata o davanti a una commmissione sembra avvantaggiare maggiormente i datori di lavoro. Il perché ce lo spiega il sindacalista: «La certificazione, che dal 2010 ha valore vincolante in tutti i contenziosi in materia di lavoro, priva il lavoratore dalla possibilità d’impugnare il contratto in caso di disputa col datore, almeno finché non sia accertata in primo grado l’irregolarità della certificazione stessa».
Dal 2010 sono centinaia le vertenze partite da richieste di certificazione (fra le più note la storia delle dipendenti di Poltronesofà raccontata questa estate dal manifesto) e nella maggior parte dei casi sono state dichiarate nulle dai tribunali del lavoro, ma quella norma esiste ancora.
«In questo modo il contratto viene blindato e il lavoratore – prosegue ancora D’Andrea – non può essere sottoposto a ispezione fino al primo grado di giudizio. È un’assurdità che va abrogata: nel frattempo consigliamo ai lavoratori a cui viene richiesta, di rivolgersi al sindacato prima della firma».
I 130 dipendenti Intellcredit e in generale i migliaia di lavoratori impiegati nel recupero crediti, sono fra i più sottoposti a vessazioni, a partire dai contratti proposti dalle imprese, fra cui figurano anche ricche multinazionali. La vertenza riguarda lavoratori con un contratto a progetto che consente ben pochi margini di autonomia: hanno infatti un fisso di 3 euro e 50 l’ora, esclusivamente per ricevere chiamate, anche se non si limitano però soltanto a rispondere. Di fatto, come è logico nel recupero crediti, gli operatori fanno anche chiamate. Tutto lavoro finora non riconosciuto.
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