Ribollono i dispiaceri della carne
Intervista Andrea Bertaglio, autore del libro «In difesa della carne» (sponsor Assocarni): perché un dialogo è necessario anche se la classica «fettina» altera il clima, distrugge foreste, inquina e fa male alla salute
Intervista Andrea Bertaglio, autore del libro «In difesa della carne» (sponsor Assocarni): perché un dialogo è necessario anche se la classica «fettina» altera il clima, distrugge foreste, inquina e fa male alla salute
Sicuramente è uno dei fattori che altera il clima, distrugge le foreste, consuma e inquina l’acqua e, ai livelli di consumo del mondo benestante e satollo, non fa poi così bene alla salute. Eppure c’è chi si schiera in sua difesa. In difesa della carne è il titolo di un libro di Andrea Bertaglio (Edizioni Lindau), giornalista, collaboratore del sito «Carni Sostenibili», strumento di Assocarni per raccontare la sua versione sugli allevamenti. Accettiamo la provocazione, convinti che la carne non abbia bisogno di avvocati difensori, semmai di una commissione inquirente permanente per nutrire un dibattito serio sul più controverso degli alimenti. Perché se un mondo vegano è la più utopica delle utopie, invece è possibile diminuire i consumi e aumentare la sostenibilità dei prodotti di origine animale, favorendo il benessere degli animali stessi. Serve un dialogo con chi produce la carne, siamo d’accordo con l’autore. Con chi la produce con dedizione per gli animali e tutta l’attenzione possibile per l’ambiente. Serve far emergere gli allevatori virtuosi e tenere gli occhi ben aperti su altri metodi di allevamento difficilmente difendibili, considerando che il 75% del mercato globale della carne bovina è in mano a 4 colossi (1 brasiliano, Jbs e 3 americani: Tyson Food, Cargill, National Beef), idem per i suini (Jbs, Tyson Food, Orwell e 1 cinese, WH Smithfield) e che l’Italia importa circa il 23% della carne bovina e il 42% di quella suina, mentre il pollame è tutto italiano visto che siamo esportatori netti.
Bertaglio, lei dice che in Italia il consumo reale medio di carne non è poi così alto, attestandosi sui 38 kg/anno, ovvero 728 gr. a settimana. Tuttavia, è quasi il 50% in più di quanto raccomandano le linee guida INRAN (500 gr.). Inoltre, per l’Associazione dei Pediatri, i bambini italiani assumono il doppio delle proteine necessarie. Perché difendere la carne?
Con questo libro ho voluto in maniera molto chiara invitare a una dieta il più possibile equilibrata che comprenda anche la carne: non è un invito a mangiarne di più, semmai a ignorare inutili allarmismi che inducono le persone a diete improvvisate molto restrittive e per questo davvero dannose. Sappiamo del ritorno del rachitismo in bambini costretti dai genitori a regimi vegani. Abbiamo la fortuna di essere il paese della dieta mediterranea che comprende anche la carne, seguiamola.
Nel comparto alimentare, l’allevamento animale è il settore che produce il maggior impatto ambientale, responsabile del 14% delle emissioni climalteranti (IPCC, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, 2014), quanto l’intero settore dei trasporti. Il sistema agroalimentare è responsabile dell’80% della deforestazione e sono l’aumento dell’allevamento e delle coltivazioni destinate alla mangimistica i maggiori responsabili di questa distruzione. Che sia necessario ridurre drasticamente i consumi di carne, lo sostengono tutti i maggiori esperti, non solo gli ambientalisti, da Slow Food agli esperti dell’IPCC. È un’evidenza scientifica, non un’ideologia. Nessuno nega che l’allevamento abbia un impatto su scala globale. Tuttavia io indico il modello italiano, che è una via di mezzo tra quello estensivo del Sudamerica e quello davvero intensivo praticato negli Usa e non solo, come un sistema più efficiente a livello ambientale. Gran parte degli animali stanno nelle stalle, questo può far storcere il naso a qualcuno, ma bisogna sapere che gli animali in stalla sono sottoposti a controlli continui, gli allevatori ci stanno molto attenti, anche perché sono i primi a tenere alla salute dei loro animali. Poi esistono anche diversi allevamenti estensivi in Italia: in genere si tratta di allevamenti medio-piccoli, in zone marginali, nelle isole, che contribuiscono alla tutela del paesaggio, evitano l’eccessivo spopolamento delle zone interne e montane, preservano dalla cementificazione e persino dal rischio desertificazione: la presenza degli animali al pascolo rinvigorisce terreni spesso esausti.
Certo, ma di animali al pascolo se ne vedono ben pochi in Italia…
Ci sono diverse iniziative in questo senso, anche da parte di grandi allevamenti.
L’allevamento intensivo è una della cause dell’erosione genetica delle razze domesticate perché seleziona soltanto le razze più produttive e adatte alla stabulazione a scapito di quelle più adatte all’ambiente: in Italia si sono estinti il 50% dei maiali autoctoni, il 30% dei bovini e il 20 % degli ovini (banca dati FAO/DAD, Domesticated Animal Database), e altri sono a rischio di estinzione. Gli allevatori sono consapevoli del rischio della perdita di materiale genetico?
È altrettanto vero che ci sono razze predilette dai consumatori che chiedono sul mercato sempre o solo quelle, perché più magre o più tenere, inoltre la scelta dei tagli di carne si è molto ridotta (del pollo è richiesto solo il petto) e gli allevatori si sono adeguati a questa richiesta. Però ci sono molte iniziative parallele a tutela delle razze autoctone che vanno riscoperte e sostenute. Del resto, l’allevamento italiano per essere competitivo deve puntare sulle eccellenze, e lo sta facendo.
L’Italia importa ogni anno 4 milioni di tonnellate di soia per mangimi, e l’84% è soia OGM. Cosa mangiano i nostri animali?
È vero, l’Italia e l’Europa non sono autosufficienti per la produzione di soia, ma bisogna sapere che in parte i mangimi sono prodotti in azienda e sono sempre più gli allevamenti che tendono a produrre in proprio per avere il controllo della filiera. Inoltre si lavora molto per migliorare la qualità dei mangimi per ridurre le emissioni ( i bovini emettono metano come prodotto del metabolismo, ndr). In Italia si fa un massiccio uso di antibiotici per gli animali, superiore alla media europea (European Medicines Agency, 2016). Si danno antibiotici anche se non sono presenti patologie, e oltretutto si usano in veterinaria antibiotici fondamentali nella medicina umana (chinoloni, cefalosporine, polimixine) che aumentano il rischio di diffusione di ceppi batterici resistenti, contro i quali rischiamo di trovarci indifesi. La Commissione europea stima che siano 25mila le morti causate da antibiotico-resistenza in Europa. Secondo le linee guida 2018 sull’uso prudente degli antibiotici negli animali da latte e dei suini dell’Emilia Romagna, il «sovraffollamento è la maggior causa di contaminazione», inoltre «le somministrazioni a scopo profilattico e metafilattico andrebbero evitate o comunque fortemente limitate».
Parliamone…
Quello della resistenza agli antibiotici è un tema serio, inquietante, un rischio reale, però gli allevamenti sono presi di mira come causa principale, dimenticando che anche negli ospedali come nelle nostre case facciamo un uso eccessivo e sconsiderato degli antibiotici, senza considerare gli animali domestici (questi rappresentano lo 0,8 degli antibiotici utilizzati, ndr). Sia chiaro però che in Italia gli antibiotici come fattore di crescita non vengono utilizzati e gli ormoni sono vietati dagli anni ’80. L’uso degli antibiotici è in calo, per la prevenzione negli allevamenti si punta più sui vaccini.
Al momento l’unico «marchio» che orienta i consumatori verso il consumo di carni sostenibili è quello biologico. Pensa che sarebbe utile avere un marchio di eticità degli allevamenti? Ci arriveremo?
Penso di sì, anch’io mi chiedo perché molti allevatori non lo facciano. In Italia le certificazioni sono viste come qualcosa che grava sui costi, niente di più. Inoltre, la domanda del mercato è ancora molto debole, non c’è sufficiente richiesta nemmeno di carne biologica. Sarà perché per acquistare carne di qualità basta rivolgersi al macellaio di fiducia e per tenere i costi sotto controllo basterebbe scegliere i tagli cosiddetti poveri, che peraltro sono parte essenziale della nostra tradizione culinaria.
Nel libro lei ironizza sulla scelta vegana e in parte anche su quella vegetariana. Non pensa che siano scelte profondamente etiche o, almeno, l’unica forma legittima di protesta verso un sistema molto più orientato al profitto che al benessere degli animali, un sistema che fa del dominio sul vivente la sua forza, e che avrebbe amplissimi margini di miglioramento?
Mi rendo conto che il tema è molto complesso. Ben vangano le forme di protesta se possono contribuire a migliorare la condizione degli animali. Il veganesimo può essere una forma di protesta, però mi infastidisce quando diventa una protesta da salotto, per gente ricca che vive in ambito urbano, che non ha mai visto né un allevamento né il sud del mondo. Il pollo e il maiale sono un tesoro nutrizionale per miliardi di persone in Africa, in Asia, in America Latina. Chi fa la scelta vegana il più delle volte finisce per nutrirsi con alimenti di qualità dubbia, a prezzi elevatissimi, prodotti dalle stesse multinazionali che controllano gli allevamenti super-intensivi che si vogliono contestare, andando a rimpinguare quelle stesse casse. Insomma, attenzione alle fregature. Penso ci siano forme più efficaci di protesta. Io ho deciso di raccontare quello che funziona.
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