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Ribelle a Los Angeles: Haile Gerima

Ribelle a Los Angeles: Haile Gerima"Bush Mama" (1979)

Intervista In una retrospettiva al Jeu de Paume a Parigi fino al 25 aprile i film del maestro del cinema

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 15 aprile 2017

“Cineasta impegnato e indipendente del Terzo Mondo” Così Hailé Gerima ha sempre amato definire se stesso e il suo cinema senza confini, dalle lotte nei ghetti americani alle terre luttuose della sua Etiopia. Accolto, a partire da Hour Glass del 1971, come uno dei principali esponenti del «New Black Cinema» indipendente, si concentra fin da subito sugli effetti della violenza razziale e di classe, sulla ricostruzione di una memoria falsata dalla dominazione coloniale, sullo sradicamento della cultura africana e sul suo trapianto forzato nel mondo occidentale. Abbiamo incontrato il regista a Parigi, poco prima della masterclass con Charles Burnett a chiusura della sezione Rebelles à Los Angeles – Un nouveau cinéma afro-américain, curata da Marie-Pierre Duhamel Müller all’interno del Cinéma du Réel e poco prima dell’inizio della retrospettiva lo vedrà protagonista, fino al 25 aprile, presso centro d’arti visive Jeu de Paume sempre nella capitale francese.

Lei ha lasciato l’Etiopia da ragazzo per approdare negli Stati Uniti a studiare teatro. Quando e come è entrato il cinema nella sua vita?

Il cinema è stato qualcosa di accidentale. Quando lasciai Chicago, dove studiavo, per frequentare la UCLA ero ancora interessato al teatro ma cominciai ad avere problemi di tutti i tipi con la facoltà. Mi sentivo costantemente alienato e così un giorno, mentre girovagavo per le aule, mi imbattei in una proiezione di film realizzati di studenti e pensai “Dovrei provare anch’io”. Guardavo molti film, ero quasi ossessionato dal cinema, fin dai tempi in cui vivevo in Etiopia, ma non pensavo di avere diritto di poterli realizzare.

Con quali autori, o movimenti cinematografici, sentiva di essere maggiormente in dialogo? Le ondate europee o il Cinema Novo del cosiddetto Terzo Mondo?

Non mi sono mai interessate le avanguardie europee, soprattutto quelle francesi, perché gli studenti bianchi erano tutti ossessionati da Godard e la cosa non mi piaceva affatto visto che Godard, prima di ribellarsi, ammirava e sentiva di provenire da una certa tradizione hollywoodiana. Il Cinema Novo invece mi attirava moltissimo: Sangue del condor di Jorge Sanjinés, Lo sciacallo di Nahueltoro di Miguel Littin, i film di Glauber Rocha ma anche quelli cubani, soprattutto dopo aver letto dell’”Imperfect Cinema” teorizzato da Julio Garcìa Espinosa. Un film fondamentale fu Memorie del sottosviluppo di Tomas Gutiérrez Alea, insieme al documentario L’ora dei forni di Octavio Getino e Fernando Solanas. Quando cominciai a insegnare, lo mostravo sempre ai miei studenti perché ritengo che Solanas sia stato un grandissimo, e sottostimato, cineasta, anche quando cominciò a realizzare film di finzione. Tornando alla mia formazione non posso non citare il primo Fellini, quello de La strada e L’isola nuda di Kaneto Shindo, un film classico per Haile! Il film di Shindo mi fece piangere, rivivevo la mia infanzia durante la visione e mi rendevo conto, forse per la prima volta, di quanto fosse grande il potere del cinema. Chiudo citando Borom Sarret di Ousmane Sembène, una vera rivoluzione per me perché prima di questo film, pensavo che il cinema si potesse scrivere solamente in inglese mentre Sembene mi fece capire che è normale scrivere delle storie usando la propria lingua.

Siamo alla fine degli anni ’60 e il dipartimento cinema della UCLA inaugurò un programma di studi allo scopo di promuovere l’ammissione in facoltà di allievi facenti parte di minoranze etniche. Futuri registi come lei, Charles Burnett e Larry Clark cominciate a realizzare i vostri film ma senza un manifesto stilistico preciso, nonostante anni dopo Clyde Taylor vi riunirà sotto l’etichetta di L.A. Rebellion. Cosa legava dunque i vostri primi passi come filmmaker?

Tutti ci sentivamo isolati e consapevoli di non aver mai fatto parte della Storia del Cinema. Personalmente, come dicevo prima, mi ritenevo non legittimato a realizzare film perché l’ambiente “bianco” ti faceva sempre sentire un immigrato illegale. Volevamo raccontare le nostre storie, diverse per inclinazione e stile ma con il comune risentimento per come Hollywood ci aveva sempre dipinto. Gradualmente il fattore politico della controcultura diventò parte del nostro quotidiano e cominciai a frequentare un gruppo di studio interrazziale di marxisti-leninisti insieme al mio amico Charles Burnett. Dunque anche il clima politico contribuì a unificarci ancora di più e così, tutti noi studenti sentimmo il bisogno di aprire sempre di più il nostro sguardo. Costringemmo la scuola a noleggiare e a proiettarci film latino-americani, soprattutto cubani, giapponesi ma la cosa più interessante era come noi lavoravamo per i film degli altri. Charles Burnett e Larry Clark, ad esempio, si dedicarono molto a me, mi aiutavano sui miei set e io nei loro. All’epoca non eravamo consapevoli di essere parte di questo collettivo, e del suo potere, ora, quando rivedo i nostri film, mi accorgo di quanto fu un’esperienza collettiva ed è questo che cerco di trasmettere anche ai miei studenti. Per me l’unico futuro possibile per il cinema non può che essere in gruppo, il futuro è il collettivo, è aiutarsi senza giudicare, o pregiudicare, la visione e il sogno del singolo.

Nell’ultimo periodo, sembra che l’industria cinematografica americana si stia “aprendo” maggiormente alle problematiche degli afro-americani. Penso al trionfo agli Oscar di Moonlight di Barry Jenkinks, a film come Loving di Jeff Nichols o Il diritto di contare di Theodore Melfi. Questa apertura, a suo avviso, è soltanto un’illusione, come già accaduto in passato?

Assolutamente sì! Quando il bianco liberale americano è nei guai, che succede? Si apre alle minoranze ma che cos’è il cinema senza la “vera” gente? A causa della gentrificazione, le minoranze stanno perdendo la propria identità. Quando arrivai io, Washington DC era composta al 70% da afro-americani, ora è il 30% perché l’elite non viene a vivere con noi, viene a dislocarci. Cosa amplificano ora i film? Questi problemi? Assolutamente no: la disoccupazione cresce, anzi, dai tempi di Obama è ancora peggio e nessuno ha il coraggio di denunciarlo anche perché i neri non potevano certo protestare contro il primo presidente afro-americano e ritengo che questo sia stato il più grande compresso nella nostra storia. I neri stanno perdendo tutto quanto avevano guadagnato in questi anni di lotte, la disoccupazione e i senzatetto sono ovunque mentre Hollywood resta il luogo del sogno e la razza che in America sta prendendo piede è la mediocrità anche se ora l’illusione è che i neri abbiano accesso a qualcosa che prima era proibito. Hollywood risponde all’elite americana mentre, a mio avviso, il vero cinema oggi è quando i ragazzi filmano la brutalità della polizia con il loro telefonino, è questa la vera sfida al cinema middle-class nero.

Sono passati quasi dieci anni dal suo ultimo lungometraggio di finzione, Teza, mentre ne sono passati molti di più da Adwa: An African Victory, documentario del 1999 che restituisce la memoria della lotta anti-coloniale della sua Etiopia. Da anni lei sta lavorando alla seconda parte, The Children of Adwa, dedicato alla resistenza contro i fascisti negli anni ’30, ma sappiamo, anche grazie all’interesse di Roberto Silvestri proprio sulle pagine de Il manifesto, che da troppo tempo questo progetto è bloccato…

E’ un film sui sopravvissuti, sulle persone che hanno combattuto quella guerra, mio padre compreso, e ho impiegato anni a ritrovare questi eroi. Il film è diviso in sei parti e l’ultima riguarda gli inglesi che per primi tradirono l’Etiopia, diventando amici di Mussolini per poi cambiare di nuovo corso. Ho già girato tutto il materiale al presente, mi mancano soltanto i filmati d’archivio dell’Istituto Luce. In tutti questi anni non sono mai riuscito a instaurare un dialogo con il Luce, nonostante l’aiuto e la mediazione di molti amici italiani come Alessandra Speciale, Roberto Silvestri, Marco Müller e Alberto Farassino. Oggi, con il nuovo presidente Roberto Cicutto, sembra che le cose finalmente si stiano muovendo ma dopo decenni di porte chiuse in faccia, sono diventato diffidente ma continuo a lottare per avere dalla mia parte l’Istituto Luce anche perché si tratta della nostra storia comune. Per il primo Adwa furono i tedeschi ad aiutarmi ma questa volta voglio assolutamente che siano gli italiani a farlo perché sono convinto che sarebbe “terapeutico” per il vostro Paese.

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