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Ri-generazioni di una sinistra che lavora sul territorio

Ri-generazioni di una sinistra che lavora sul territorioUn murales a Corviale, Roma – Ansa

Due esperienze nel Lazio, organizzate da giovani e anziani, con il sindacato e le università, su progetti con al centro la vita nelle periferie, per ripensarle con un lavoro collettivo

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 18 ottobre 2022

I Due eventi positivi perché progettuali che ho pensato sarebbe stato utile condividere e così sono qui a raccontarveli. Il primo, promosso dalla nuova associazione Nuove Ri-generazioni, inventata dallo Spi (Cgil-pensionati) e dalla Fillea (Cgil edili), disegnata da Gaetano Sateriale, ex sindacalista ma anche ex sindaco di Ferrara. Il nome dice tutto: bisogna riparare e reinventare il nostro modo di abitare e di lavorare, e per farlo occorre ripartire dal territorio sul quale i suoi abitanti devono assumere un ruolo determinante.

Un compito da affidare in primo luogo alla nuova “generazione”, ma anche ai vecchi – i pensionati, appunto – ancora disposti a fare la propria parte insieme a loro per ringiovanire anche il nostro modo di fare politica, per ripensarsi come sinistra, ciascuno nel proprio campo ma insieme.

Riscoprire il valore dell’agire collettivo sta infatti al primo posto del nostro «che fare», per bloccare il dominio del principio cardine dei Trattati dell’Unione europea e dei valori “occidentali”: la competitività anziché la collaborazione (“Io da solo forse ce la faccio”).
All’odg della assemblea, il battesimo della associazione Nuove Ri-generazioni del Lazio, di cui è stata eletta presidente una giovane architetta pensionata, Linda Mosconi, e poi due tavole rotonde: una sul punto cui si è arrivati nella realizzazione di comunità energetiche; la seconda sul valore politico della costruzione di nuove forme di democrazia organizzata.

Protagonisti i rappresentanti di neo associazioni collegate (e anche non ) con i municipi capitolini, molti animatori di gruppi informali giovanili che in modo crescente occupano la scena metropolitana. (Fra questi anche i compagni del Quarticciolo con cui ormai da tempo lavora anche la nostra taskforce Natura e Lavoro). Così come, ovviamente, i militanti sindacali, che dovranno, anche loro, convertire i mestieri destinati a costruire nuovi giganteschi complessi edilizi (la cementificazione del suolo è arrivata in Italia a 64 ettari al giorno), in quelli adatti a riadattare le costruzioni esistenti che vanno non solo riparate, ma di cui occorre reinventarsi le funzioni per rispondere ai tanti nuovi bisogni del vivere.

Il territorio cui si sono riferiti nel dibattito è la grande cerchia della periferia di Roma, la zona più politicizzata della capitale. Ed è stato assai interessante che nelle loro conclusioni Ivan Pedretti, segretario dello Spi, Alessandro Genovesi, segretario della Fillea, e Michele Azzolla, segretario Cgil del Lazio, abbiano sottolineato proprio l’importanza di questo impegno per ridar sangue alla nostra democrazia. (Sono contenta che Pedretti abbia persino ripreso il mio accenno ad una innovativa esperienza sindacale dei primi rossi anni ’70 : i Consigli di Zona, figli di quelli di Fabbrica, una indicazione oggi rilanciata da Landini con il nome “sindacato di strada”. )
Tutt’altro scenario, ma stessa tematica, nel convegno, qualche giorno dopo, promosso da due docenti di urbanistica della Sapienza di Roma e membri della nostra taskforce, Eliana Cangelli e Carlo Cellamare ( non a caso soprannominato “urbanista di strada” ).

Analoga grande partecipazione che ha riempito l’Aula Magna del Rettorato, titolo dell’incontro “La periferia e/è Roma”. Le due “e” a sottolineare lo stato delle cose presenti – due mondi separati – e come dovrebbe esser invece percepito quanto c’è dentro l’area contenuta dal Gra, e quanto sta fuori, dove vivono 800.000 persone, che in comune hanno il non aver quasi niente.

Nel dibattito alla Sapienza ricorrono gli stessi nomi dell’incontro di Ri-generazione – Corviale,Tor Bellamonica, Malagrotta,i più antichi San Basilio o Quarticciolo – ma anche quelli delle periferie di Napoli, di Bari, di Milano eccetera perché a partecipare all’incontro e a illustrare i loro progetti sono venuti anche dalle altre università italiane. Che si sono assunte l’impegno di lavorare nelle rispettive aree geografiche per raccogliere, e sostenere, tutti coloro, giovani soprattutto, che in questa concreta attività collettiva ritrovano l’interesse e il gusto della politica. Che ha già dato vita a non poche mobilitazioni, anche se raramente queste vengono riconosciute come politica.

Non poche delle persone impegnate non vanno a votare, ma non perché sono spoIiticizzate, al contrario, perché molta della politica istituzionale non le rappresenta.
Questo intreccio fra soggetti diversi che hanno però in comune la coscienza che la partecipazione si produce quando ai cittadini viene dato protagonismo, è, credo, il punto da cui ripartire. Mi riconduce all’esperienza preziosa vissuta nel Pci romano degli anni ’40/50, quando andavamo nelle borgate per aiutare, e imparare, come i sudditi possano trasformarsi in soggetti, premessa dell’impegno politico.

Non scrivo queste cose per nostalgia del passato. Le ricordo perché credo che animare protesta sia essenziale ma non basti a riempire il vuoto che separa sempre più la società dalle istituzioni se non si consolidano nuove forme di democrazia diretta.
Lo so che ci vuole un partito, e cioè un progetto strategico che indichi dove si deve e si può arrivare. Lo so, ma quello che voglio dire è che non è rimettendo insieme pezzetti di sinistra provati da molte sconfitte che costruiremo il partito necessario. Non è, per carità, un invito a disertare le urne. Ho fatto con impegno la campagna elettorale e sono contenta che nel pessimo quadro che ne è emerso il mio partito, Sinistra Italiana, sia ora presente in Parlamento, un sia pur piccolo ma chiaro riferimento per la battaglia che dobbiamo condurre.

Ho solo cercato di spiegare perché non ho voglia di partecipare al presente dibattito post elettorale sui destini della sinistra: per farne una che serva il processo sarà lungo, e il primo passo è prendere atto che non siamo in un tempo qualunque, ma a un passaggio d’epoca – la crisi del capitalismo – che può portarci alle barbarie sociali ma anche a al mondo liberato per il quale Carlo Marx ci ha insegnato a lottare.

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