Muri bianchi, rive deserte, facce che sembrano uscite dai film di Ciprì e Maresco e dal Vangelo di Pasolini. Antonio Rezza, in mutande, si dispera in braccio a una madre/ ma-donna splendida e silente; si accompagna a un’anziana signora che gli chiede se, in quanto Dio/ autore, è registrato alla Siae, o perché, visto che può, non fa piovere.
Cani, gatti, canarini, ciucci, pesci rossi, in brevi video, ci ricordano i nostri diritti e doveri, le parole con cui i partigiani fecero nascere la Repubblica dalla melma del fascismo in cui il paese si era invischiato. Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Leone D’Oro alla Biennale di Venezia 2018, sono tornati.

Flavia Mastrella e Antonio Rezza

Non stupisce che siano proprio questi due artisti totali, irriverenti che da sempre rifiutano istituzioni e sistema produttivo mainstream, a riportare nel discorso pubblico, con due lungometraggi – Cristo in gola e La Legge – questioni così urgenti e allo stesso tempo abusate. Il divino, il soprannaturale; i diritti e i doveri del cittadino; la divisione tra spazio pubblico e privato, in qualche modo sono al centro anche di Hybris, il loro ultimo lavoro (al Teatro Vascello di Roma fino al 22 gennaio). Nella nostra conversazione a tre voci, partiamo da qui.

«Hybris». Ben otto attori in scena e una lunga gestazione.

Mastrella: È un lavoro in contro tendenza, tutti fanno cose da soli, noi abbiamo aumentato le persone, vorremmo aumentarle ogni anno di più. Io, come al solito, ho fornito ad Antonio l’habitat: una porta che si regge a malapena in piedi, ha perso la stanza, ogni suo significato.
Rezza: Hybris è nato 4 anni fa. Dovevamo debuttare nel 2018: c’è stato il Leone d’Oro, poi ci hanno cacciato dalla Divina Provvidenza a Nettuno, luogo dove lavoravamo da 35 anni. Ora siamo in causa col comune per restituire questo spazio alla città. Poi la pandemia.

È un lavoro che parla molto di luoghi conclusi, privati. In qualche modo, anche di famiglia?

Rezza: Ci sono molte presentazioni, l’escamotage di far finta che si tratti di due nuclei familiari da luogo a una ripetizione ossessiva di nomi, ognuno non sa più con chi sta parlando. È chiaro che, per abbreviare i termini della comprensione, chi guarda ci vede la famiglia. Ma più che di famiglia si parla di drammi esistenziali individuali.
Mastrella: In questi due anni la gente si è rifugiata nella famiglia, tornando indietro di mille anni. La porta che chiude i significati è frutto di un’amarezza, di una chiusura, soprattutto culturale, già in atto nel 2018.

A proposito di individualità, come unite i vostri due «io»?

Mastrella: Alla fine, quando Antonio è pronto, lavoriamo insieme sul ritmo, sui movimenti su alcuni tagli da fare.
Rezza: Nella prima fase lavoriamo separatamente, nessuno sopporta la fase embrionale dell’altro. Ci conosciamo troppo bene per perderci nella stima reciproca, mentre ognuno sta per avere un’idea. È importante che ognuno abbia a che fare con l’idea compiuta dell’altro, non con l’idea in embrione.
Mastrella: Il nostro lavoro si basa sullo stupore, non è collaborativo. Certo, una collettività ti serve. Siamo durati tanto perché siamo due. Se uno si abbatte, l’altro sta in forma.
Rezza: Crediamo molto nel collettivo, ma deve essere un collettivo formato da individui individualisti. Come in una squadra di calcio, qualsiasi compagine formata da elementi di qualità è una squadra più forte. È inutile creare collettivi di persone che non hanno virtù. È questo il male della società: nasconde l’inefficienza del singolo.

Perchè la gente va ancora a teatro?

Perché è stata abituata male, perché cerca consolazione. Io non ci andrei proprio, se non a vedere pochissime cose. Le persone sono state abituate alla narrazione, fa ancora piacere vedere un poveraccio davanti a un microfono che fa un reading, è tranquillizzante. La gente viene a teatro per essere presa per mano. Sono smarriti. Ma il teatro è un’altra cosa. Non è quello dove la gente va. Il teatro è qualche cosa che può sconquassare, non deve tranquillizzare. Quindi quando la gente va a teatro a vedere cose che destabilizzano sono d’accordo. Ma se vai a teatro a farti prendere per mano e a seguire il filo del discorso, è un fallimento. Vi sono dei dettami, degli stili, dei riferimenti produttivi che istigano alla pigrizia: questa pigrizia si ripercuote anche sulla capacità reattiva del pubblico.

È appena uscito «Cristo in gola», (prossima presentazione il 16 gennaio al Troisi di Roma). Anche questo lavoro, auto prodotto e auto distribuito, viene da lontano, come i personaggi.

Rezza: Questo film è stato fatto in 18 anni. Quando hai un’idea, non devi necessariamente finalizzarla. Non avere committenti, fare quello che vuoi, nel tempo che vuoi: questo sarebbe l’iter ideale. Alcuni personaggi/ attori li ho trovati sul mio cammino. La signora Maria Bretagna, che neanche sapeva di interpretare il diavolo, morta di recente a 92 anni, l’ho trovata a Matera nel 2004. Altri li ho scelti in base ad attitudini particolari: Stefania Saltarelli, la Madonna, aveva quest’ambiguità nel volto che mi piace molto.

Una scena da «Il Cristo in gola»

Dio, che poi sei tu, urla, non parla. È un dio «negato», una divinità quasi suo malgrado. Perché Antonio Rezza ha fatto un film su Dio?

Questo non è un film sulla religione. È un film sull’attività performativa di un collega. Cristo aveva un corpo come il mio e predicava come involontariamente faccio io. Mi interessava fare un omaggio a Pasolini, almeno nei primi 15 minuti. Da quando io irrompo nella vicenda, non riesco a seguire più le mie stesse direttive, mi strappo il controllo dell’opera dalle mani. Strappare il controllo del mio povero cervello di autore è una cosa di cui vado fiero. Il mio è un dio involontario: glielo dice il diavolo che è dio.

Parliamo di «La Legge», film di Flavia Mastrella, montaggio di Barbara Faonio ( sarà presentato al Troisi di Roma il 30 gennaio.

Mastrella: Ho fatto una video lettura della Costituzione Italiana del 1972 recitata dagli animali con la voce del padrone. Ho interpellato 190 persone. A ognuno ho dato un articolo, indicazioni precise su come fare una ripresa col cellulare. Ho chiamato persone di tutti i tipi: attrici, scrittori, critici d’arte, persone normali, bambini, adolescenti. Questo è successo durante il lockdown, quando non riuscivo a stare senza contatto umano. L’ho fatto per dimostrare che ognuno è creativo, che alle persone va di andare nella stessa direzione e soprattutto credono nella legge, elemento che oggi sembra alieno in Italia.

I protagonisti sono i nostri animali. Perché?

Gli animali ormai rappresentano la parte umana dell’uomo. Allo stesso tempo, credo che noi tutti, partendo da me stessa, siamo diventati un po’ sornioni nei confronti della legge e della nostra Costituzione che, per esempio, garantisce che i diritti dei lavoratori non vengano calpestati e ripudia la guerra.