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Revisionismi: la destra e il nuovo romanzo nazionale

Revisionismi: la destra e il nuovo romanzo nazionalePietro Consagra, «Senza titolo», 1961-’62

Casi critici Tutti i cambi di regime manifestano la tendenza a riscrivere la storia: è accaduto in Spagna; sta accadendo in Francia (con vibranti reazioni); il governo Meloni non fa eccezione

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 4 dicembre 2022

La tendenza si era annunciata già nel 2004, con la cosiddetta «riforma» della scuola voluta da Letizia Moratti ministra dell’istruzione (l’aggettivo «pubblica» dall’intestazione lo fece togliere proprio lei), che indicava i temi su cui l’insegnamento della storia doveva incentrarsi creando un sillabo «senza le Crociate, senza l’Inquisizione, senza Lutero, e le guerre di religione, senza la caccia agli ebrei e alle streghe, senza la rivoluzione industriale, in una parola senza conflitti né oppressioni, di razza, di classe, di genere». Il testo tra virgolette è di Adriano Prosperi, storico insigne, uno dei pochi a prendere ferma posizione, in quegli anni, contro quella plateale operazione di maquillage.

Adesso, con la maggioranza e il governo di destra, ci risiamo. Tra le cose che più preoccupano i nuovi arrivati sembra infatti esserci la creazione di un nuovo «romanzo nazionale» (come lo chiama lo storico francese Pierre Nora), e a questo scopo vanno indicando che cosa, nella storia, va dimenticato e cosa va portato in primo piano, anche a costo di inventarne, cancellarne o alterarne dei capitoli importanti. Nel suo discorso di insediamento da presidente del Senato, per esempio, Ignazio La Russa non s’è risparmiata una sua versione degli Anni di Piombo, in cui i terroristi di destra sono stati presentati come «tanti ragazzi che hanno perso la vita perché credevano in delle idee e degli ideali o perché si trovavano nel posto sbagliato al posto sbagliato». Anche la presidente del Consiglio, presentandosi alle Camere, ha dato una sua visione della storia italiana recente, in cui taceva ogni riferimento alla Resistenza come fondamento della Repubblica e della Costituzione e presentava un’avventurosa galleria di italiane illustri (indicate, chissà perché, solo col nome), in cui tra eroine, grandi menti e figure politiche di alto rango era infilata, con mossa malandrina, anche un personaggio non proprio glorioso come Elisabetta Casellati.

Ha rincarato la dose il ministro dell’istruzione (e del merito) Giuseppe Valditara. Non appena installato, si è messo a scrivere impegnative epistole di sintesi storica per gli studenti. Il 9 novembre (caduta del Muro di Berlino) ne ha mandata una in cui, denunciando le nefandezze dei regimi comunisti, proclamava «il fallimento definitivo dell’utopia rivoluzionaria», ma non dicendo nemmeno una parola sui paralleli disastri prodotti dal nazifascismo e le sue sequele. Da qui la promessa di rispolverare il «Giorno della libertà», che nel 2005 il secondo governo Berlusconi istituì con una legge (ma che fu regolarmente ignorato negli anni seguenti).

Sebbene da più parti si sia fatto notare ai nostri governanti che la storia la scrivono gli storici e non i ministri pro tempore, avremo senza dubbio altre sortite simili, visto che nell’attuale esecutivo ci sono diversi componenti ansiosi di esternare su temi storici. L’intento, del resto, era formulato a chiare lettere nel programma di Fratelli d’Italia (paragrafo 13), dove tra gli obiettivi in campo culturale c’erano i seguenti: «Creazione di un nuovo immaginario italiano anche promuovendo, in particolare nelle scuole, la storia dei grandi d’Italia e le rievocazioni storiche. Valorizzazione del Giubileo 2025 e di Roma Capitale della Cristianità. Contrasto a cancel culture e iconoclastia che minacciano i simboli della nostra identità» (corsivi miei).

Va detto che, nel proporre avventurosi percorsi («creazione di un nuovo immaginario», «Roma capitale della Cristianità» ecc.), l’Italia non è sola. In altri paesi europei la politica prova ogni tanto a riscrivere il «romanzo nazionale», cioè quell’insieme di narrazioni e di memi, non necessariamente aderenti al reale, che la gente condivide senza troppo curarsi delle omissioni. È quasi inutile ricordare il famigerato articolo di Putin «Sull’unità storica di russi e ucraini» (uscito nel 2021 poco prima dell’«operazione militare speciale»), in cui la storia dei due paesi era completamente riscritta. Ma non mancano paesi di piena democrazia in cui si ricorre perfino a leggi per sistemare capitoli tragici del passato. Così la «Ley de Memoria Histórica» approvata in Spagna nel 2007 (governo Zapatero), che da una parte riconosceva le vittime della guerra civile spagnola (1936-’39) e della dittatura di Franco (ma non autorizzava l’apertura delle fosse comuni), ma dall’altra stabiliva che la memoria delle vittime è «personale e familiare», escludendo quindi che si trattasse di crimini contro tutta la società.

Uno dei più pesanti di questi dossier è quello della Francia, dove le incursioni della politica nella storia (anche quella degli altri) sono tutt’altro che rare. Dopo aver stabilito nel 2001 per legge, ma senza prevedere sanzioni, che il massacro degli armeni da parte dei turchi era «genocidio», nel 2012 (governo Sarkozy) un’altra legge fissava anche sanzioni. Se il massacro degli armeni non toccava la Francia in modo diretto, capitoli come lo schiavismo e la colonizzazione la coinvolgono invece in modo ancora scottante. Nel 2001, il governo Hollande fece passare la cosiddetta legge Taubira (dal nome dell’allora ministra della giustizia) che qualificava la tratta degli schiavi «crimine contro l’umanità» e stabiliva sanzioni per chi lo contestasse. Fu così che Olivier Pétré-Grenouilleau, che in forza della sua esperienza (era autore di una storia globale della tratta: Les Traites négrières, Gallimard 2004) aveva provato a sostenere che lo schiavismo non è un genocidio alla pari con l’Olocausto, fu portato in giudizio sollevando un caso nazionale. E quando nel 2017 Macron, da Algeri, dichiarò che la colonizzazione era stata «un crimine contro l’umanità» e «una barbarie», la destra, quella moderata come quella estrema, insorse accusandolo di insultare la Francia e rinnegare la civiltà che il paese aveva esportato nelle colonie.

Per uscire dall’impasse, nel 2020 Macron commissionò allo storico Benjamin Stora un rapporto sulla «memoria della colonizzazione e della guerra d’Algeria», diretto a favorire «la riconciliazione tra i popoli francese e algerino». Non è bastato. Qualche mese fa ha concordato col premier algerino Abdelmadjid Tabboune di creare addirittura una commissione franco-algerina di storici che raccontino le cose come andarono davvero.

A differenza che in Italia, in Francia i continui tentativi della politica di riscrivere o ridefinire la storia hanno suscitato vibranti reazioni. Il già ricordato Pierre Nora (lo racconta lui stesso nel volume autobiografico Une étrange obstination, appena uscito da Gallimard) creò nel 2005 l’associazione «Libertà per la storia» con l’obiettivo di contrastare l’inondazione di «leggi memoriali». L’associazione, che raccolse in poco tempo un migliaio di adesioni illustri, lanciando quel suo «giù le mani dalla storia!» difendeva il principio che «in uno Stato libero non spetta al Parlamento o alla magistratura definire la verità storica» e che nessuno può imporre allo storico, «sotto pena di sanzioni, ciò che deve ricercare e ciò che deve trovare».

Spinta da una pretesa che sa di napoleonico o di mussoliniano, la storia rischia dunque di diventare ufficiale? Tutto ciò serve a qualcosa? O contribuisce solo a confondere le idee? Il rischio è grande, anche perché le esternazioni dei politici finiscono poi per filtrare nei manuali per le scuole, come ha documentato Giuliano Procacci nel suo Carte d’identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia (Carocci 2005). La narrazione che si fa il popolo va infatti distinta da quella che fanno gli storici. Quanto alla prima, Ernest Renan, in una celebre conferenza del 1882 («Che cos’è una nazione?»), aveva visto chiaro: «L’oblio, e perfino l’errore storico, è un fattore essenziale nella creazione di una nazione». Aggiungendo che proprio per questo «il progresso degli studi storici è spesso un pericolo per la nazionalità», e per la politica.

Stando così le cose, non saranno ministri in vena di esternazioni o commissioni ufficiali di storici a indicare ciò che è vero e ciò che è falso. Senza dire che, in un’epoca in cui il passato è diffusamente ignorato e perfino disprezzato (a cominciare dai giovani), queste uscite finiscono solo per aumentare la confusione.

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