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Restituire o cosa? I bronzi del Benin, una case history

Restituire o cosa? I bronzi del Benin, una case historyUna delle placche in bronzo del Benin trafugate dagli inglesi nel 1897, metà XVI - XVII secolo, Dallas Museum of Art

Editoria Inghilterra: Dan Hicks, "The Brutish Museums. The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution", Pluto Press Il saccheggio britannico, 1897, dei raffinatissimi manufatti del Regno Edo, e la musealizzazione che ne seguì, letti alla luce dell'attuale controversia su musei e colonialismo, sul sul destino dell’arte etnografica

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 10 aprile 2022
I bronzi Edo a terra nei giorni della «spedizione punitiva» inglese contro il Benin, febbraio 1897, foto di Reginald Granville

Nel 1897 un battaglione di truppe britanniche agli ordini dell’ammiraglio Harry Rawson invase la città di Edo, oggi Benin City. L’operazione militare sancì la fine del grande Regno Edo, sull’area dell’attuale Nigeria, che venne smembrato in piccoli stati poi inglobati nella regione coloniale della British West Africa. Prima di radere al suolo il palazzo reale, i soldati lo saccheggiarono prelevando un’ingente quantità di splendidi manufatti in avorio, ottone, ferro e bronzo. Una parte di questo bottino, ora convenzionalmente noto come «i bronzi del Benin», venne quindi trasferita al British Museum; un’altra, più cospicua, restò ai militari oppure fu venduta e dunque dispersa. Oggi i bronzi del Benin si trovano disseminati in un numero imprecisato di collezioni private e in vari musei occidentali, dove spesso sono giunti casualmente per vie tortuose; tra questi, l’Ethnologisches di Berlino, il Weltmuseum di Vienna, il Pitt Rivers di Oxford, il MARKK di Amburgo e il Metropolitan di New York.
In The Brutish Museums The Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution (Pluto Press, pp. 368, £ 20,00) Dan Hicks, archeologo e curatore del Pitt Rivers, racconta le vicissitudini dei manufatti Edo riallacciandosi al controverso tema delle restituzioni di beni culturali ai propri Paesi d’origine. Hicks smonta con acribia la narrazione un tempo sostenuta dalle fonti ufficiali secondo cui la spedizione del 1897 sarebbe stata una rappresaglia all’aggressione subita da una delegazione britannica, e ricorda che per offuscare la gratuita prepotenza dell’intervento si fece pretestuosamente leva sull’obbligo morale di sradicare l’usanza locale dei sacrifici umani. Di conseguenza, la razzia venne giustificata in quanto indennizzo delle spese di guerra e presentata come azione di salvaguardia condotta in nome dell’umanità, ovvero un «effetto collaterale» che in definitiva permise al pubblico di Sua Maestà la Regina Vittoria di scoprire l’estetica di un popolo esotico.
In realtà, come appurato dagli storici, l’intervento rientrava in un piano espansionistico nell’ambito del confronto tra le potenze europee per il dominio del continente africano: una guerra mondiale ante litteram che si protrasse ininterrotta per tre decenni, dalla Conferenza di Berlino fino al 1914. La spedizione punitiva del 1897 fu un’invasione accuratamente premeditata in cui «si spacciò uno stupro per un salvataggio» (John Boardman).
Soddisfatte le pretese economiche dei militari, l’esposizione dei bronzi in spazi deputati servì innanzitutto a celebrare la grandezza dell’impero britannico, esportatore di civiltà, cristianità e capitalismo, illustrando l’inferiorità razziale degli africani. In questo senso il museo assolse perfettamente la sua funzione fondamentale di dispositivo ideologico. Cambiato ormai lo scenario geopolitico, i musei devono oggi rispondere a richieste profondamente diverse e perciò tendono a ridiscutere i propri trascorsi colonialisti, passando da una posizione di orgogliosa rappresentanza del potere a una di contrita autodenuncia.
Seguendo questo solco di pensiero, Hicks si augura che il museo possa diventare uno spazio antirazzista dove tracciare collegamenti tra l’oppressione storica e le ingiustizie odierne. A tal fine sottolinea la necessità di riconoscere e stigmatizzare la violenza originaria, perché altrimenti non si fa che prolungare quella stessa violenza commemorando un crimine; il che vale in particolare ma non esclusivamente per i musei etno-antropologici. L’unica soluzione sarebbe in pratica restituire tutto e avviare in questo modo un processo di risarcimento che consenta ai Paesi ex-colonie di interrogare la propria eredità culturale. Il problema è tanto più urgente nel caso dei bronzi del Benin, il cui ritorno è invocato da decenni dai nigeriani; e difatti la Germania ha recentemente mosso passi concreti verso la restituzione di oggetti finora nelle sue collezioni.
Tuttavia, così come negli ultimi anni si sono moltiplicati i fautori del rimpatrio, si è anche consolidato un fronte di scettici che vede nell’idea di decolonizzazione dei musei un disegno anti-intellettuale nocivo per il ruolo delle istituzioni museali. Ad esempio, Tristram Hunt, direttore del V&A e già parlamentare del partito laburista, ha affermato i che musei hanno il compito di mediare tra «nostalgia imperialista» e «politica identitaria», e pertanto bisogna biasimare chi assimila lo smantellamento delle collezioni pubbliche a una rivalsa contro il patriarcato, il razzismo e l’iniquità sociale.
Nel controbattere questo genere di convinzione, Hicks esamina la Declaration on the importance and value of universal museums, un documento pubblicato nel 2002 e sottoscritto da diciotto importanti enti culturali – incluso l’Opificio delle Pietre Dure – che in nome di un’idea universale di museo contestava il rimpatrio appellandosi all’argomento relativista delle circostanze storiche in cui le acquisizioni sono avvenute. Anziché arrischiarsi in riflessioni filosofiche, Hicks preferisce rispondere ponendo la questione sul piano etico-pragmatico e chiedersi come sia possibile considerare «universali» istituti ubicati in larga prevalenza nelle nazioni più ricche del pianeta che per missione mostrano oggetti sottratti con la forza o l’inganno. Per l’autore, la tesi secondo cui a Londra, Parigi, New York e Berlino gli oggetti sarebbero in qualche modo più tutelati che a Lagos, Nairobi o Kinshasa è smentita dal fatto «che attualmente i curatori di questi presunti ricoveri sicuri del patrimonio universale non sanno neanche cosa c’è in collezione». Non è infrequente, infatti, che nei depositi dei grandi musei si trovino stipati alla rinfusa oggetti sommariamente catalogati dei quali non si è nemmeno grado di indicare con certezza la provenienza; mentre scarseggiano sempre le risorse per svolgere le opportune ricerche su origini e natura degli manufatti. In ogni caso, i curatori non dovrebbero limitarsi ad accertare la provenienza del singolo oggetto, bensì ricostruire senza edulcorarla la sua storia. Hicks propone infatti un approccio «necrologico»: «capire cosa è stato preso e da chi, e facilitarne il ritorno laddove richiesto». Lo scopo non è solo fare ammenda per i torti del passato, ma portare il pubblico a una migliore comprensione dei fatti.
Fatta salva la buona fede, va comunque osservato che in linea teorica la proposta di Hicks si configura come ennesima istanza dell’utopia politicamente corretta del «riparare» alla malvagità collettiva di ieri (verso gli Edo, o gli indiani d’America, o gli immigrati cinesi, ecc.) attraverso indennizzi o provvedimenti giuridici. Purtroppo, l’idea che un ordine giuridico possa fare ammenda per i suoi crimini fondatori e lavarsi così retroattivamente delle proprie colpe ritrovando l’innocenza perduta è illusoria. Senza contare che nell’era della dematerializzazione la tardiva restituzione di beni culturali giacenti nei depositi potrebbe benissimo sembrare un’astuta manovra di decluttering, eliminazione degli ingombri, nonché prefigurare – e Hicks dimostra di esserne consapevole – il conseguimento di un nuovo e più brutale ordine imperialista, in cui l’oppressore dopo aver lucrato sulla rapina specula sulla restituzione della refurtiva.

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