Resistenze non umane tra pratiche intensive e evoluzioni filosofiche
SCAFFALE «Del governo degli animali. Allevamento e biopolitica», un saggio di Benedetta Piazzesi edito da Quodlibet
SCAFFALE «Del governo degli animali. Allevamento e biopolitica», un saggio di Benedetta Piazzesi edito da Quodlibet
Il rapporto umano-animale non è un invariante universale, bensì è sottoposto, proprio in quanto rapporto, alle forze della storia. Questo è il nucleo incandescente del sapiente, accurato e coinvolgente Del governo degli animali. Allevamento e biopolitica di Benedetta Piazzesi (Quodlibet, pp. 243, euro 22), che, seguendo le piste aperte da Foucault, si mette sulle tracce delle modalità secondo cui questo rapporto si è andato modificando le temperie culturali, economiche, scientifiche, sociali e politiche in Francia (sineddoche di Occidente) tra la seconda metà del XVII e la prima del XIX secolo.
PRENDENDO LE MOSSE dalla visione dell’animale-macchina di Descartes, Piazzesi mostra come questa visione sovrana si vada sfaldando fino a quando, almeno da Kant, «gli animali si trovano ad essere inscritti in una posizione doppiamente problematica»: non sono più orologi ma, comunque, le loro finalità possono essere colte solo per analogia con quelle umane (in quanto ritenuti privi di linguaggio) e la loro soggettività è solo parziale (in quanto ritenuti incapaci di autoriflettersi). Non più oggetti, quindi, ma neppure soggetti, gli animali diventano (s)oggetti perturbanti che stanno nel mezzo e che, pertanto, necessitano di essere governati, poiché non più esclusi a priori dal contratto sociale, ma inclusi nella forma di un’«incorporazione» ontologica e materiale.
Dal che discende la necessità di fare degli animali «il bersaglio di una tecnologia di soggettivazione volta all’interiorizzazione del potere», un potere che «smaterializza la propria violenza» per trasformarsi «in un potere, che si esercita a distanza e da dentro il soggetto». Il potere sugli animali, insomma, da «illimitato e ciononostante legittimo» si fa biopotere a tutti gli effetti, lungo un movimento in cui, superando una delle macchie cieche di Foucault – forse la principale –, «il concetto di biopolitica ne risulta ampliato, o meglio pluralizzato». In breve, «a nuove concezioni del vivente corrispondono nuovi modelli di governo», e viceversa. Da qui, prende le mosse la seconda parte del volume, in cui una ricerca originalissima si impegna a incrociare «pratiche discorsive e non discorsive, e in particolare le trasformazioni delle concezioni degli animali con le strategie del loro sfruttamento», al fine di iniziare a scrivere «una storia politica degli animali» (dove il genitivo è sia oggettivo che soggettivo). Se la visione sovrana dell’animale come macchina prevedeva il predominio della dissezione anatomica, in cui l’organismo animale era compreso come «ricomposizione dei pezzi isolati dall’operazione anatomica», la nuova visione governamentale prevede invece, come sostiene Foucault, una disciplina anatomo-politica del corpo e una biopolitica della popolazione.
ECCO ALLORA la «svolta fisiologica delle tecniche di addestramento» e il sorgere dei progetti di addomesticamento (manipolazione dei comportamenti del singolo individuo), intesi non a negare volontà e intelligenza agli animali, ma a conoscerne le funzioni per renderli docili e così sempre più produttivi. Ecco la comparsa delle tecniche di «miglioramento delle popolazioni animali», con la presa sempre più stretta sulle loro funzioni riproduttive, che si accompagna ai progetti di domesticazione, volti a trasformare in profondità le specie per renderle ereditariamente docili e produttive. Parafrasando e ampliando la visione di Foucault e accostando punto a punto le vicende umane e quelle animali (colonialismo, divisione e specializzazione del lavoro, espropriazione del lavoro non salariato, naturalizzazione delle diseguaglianze), Piazzesi mostra che è l’inserimento controllato di qualsiasi corpo ri/produttivo nell’apparato di produzione che ha fatto del biopotere un elemento indispensabile allo sviluppo del capitalismo e che, quindi, la discussione sulla questione animale, a partire almeno dalla modernità, è tutt’altro che un dibattito politico marginale. C’è, però, un’ultima faglia storica presa in considerazione dall’autrice: il passaggio dalla «disciplina della dolcezza» dell’etologia ottocentesca all’attuale necropolitica degli allevamenti intensivi e della zootecnia, che trasformano concettualmente e materialmente l’animale-macchina in macchina-animale, i corpi animali in ulteriori macchine da reddito (con un preciso «statuto economico» e una precisa «natura ingegneristica») dentro un apparato industriale sempre più globalizzato.
LE TECNICHE di presa sui corpi animali si modificano non solo perché si modifica l’organizzazione tecno-scientifica del capitale, ma anche perché, perfino nell’oscurità più cupa degli allevamenti intensivi e delle trasformazioni biogenetiche, prosegue ininterrotta la battaglia della resistenza degli animali.
Ed è in questa chiusa che il lavoro di Piazzesi dismette le vesti dell’analisi distaccata per prendere quelle di una lotta politica letteralmente incarnata. In fondo, è stato lo stesso Foucault, il 14 marzo 1984, poche settimane prima di morire, ad affermare: «L’animalità è un esercizio. È un compito per se stessi e al contempo uno scandalo per gli altri».
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