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Reservation Dogs, il senso della vita dei giovani nativi

Reservation Dogs, il senso della vita  dei giovani nativiFoto di scena dalla terza stagione di «Reservation dogs»

Streaming Terza e ultima stagione - a breve su Disney + - della serie, atto liberatorio da 500 anni di colonialismo e subalternità

Pubblicato circa un anno faEdizione del 15 settembre 2023
Luca CeladaLOS ANGELES

Reservation Dogs arriva alla terza ed ultima stagione fra plausi della critica, premi e delusione dei fans per una fine «prematura». In realtà si tratta semplicemente di una serie che ha il coraggio di chiudere al momento più logico per l’arco narrativo invece di continuare ad oltranza, come afferma lo stesso show-runner, Sterlin Harjo: «Abbiamo sempre saputo come volevamo chiudere la storia, si trattava solo di capire quando ci saremmo arrivati». Nell’opinione di Harjo e del co-creatore Taika Waititi, quel momento è giunto al termine della terza stagione in onda a breve negli Stati uniti e prossimamente sugli schermi Disney + anche in Italia.
Per le ultime dieci puntate, tornano Elora, Bear, Cheese e Willie Jack, la banda di amici che bazzica la riserva popolata da disoccupati cronici, assistenti sociali, stregoni part-time, millantatori, madri single, rapper falliti ed un campionario umano che potrebbe in definitiva popolare un quartiere di una qualunque periferia del mondo. Sullo sfondo del degrado cronico che attanaglia le terre indiane d’America, loro cercano di dare un senso alla propria vita quotidiana ed alla scomparsa di Daniel, amico morto e presenza/assenza costante della storia. Se nelle prime due stagioni hanno meditato la fuga dalla riserva arrivando fino in California, l’ultimo capitolo è quello del ritorno e delle conclusioni.

SFONDO della «dramedy» è una piccola comunità sulla riserva Muscogee in Oklahoma, stato non lontano dal centro geografico degli Stati uniti e dalla collocazione centrale anche nella cattiva coscienza del paese. Alla fine dell’800 il territorio venne convertito in enorme campo di confino dove vennero deportate dozzine di tribù da tutta America. Per questo l’Oklahoma è tuttora seconda solo all’Alaska per percentuale di nativi ed uno stato che grava pesantemente sull’immaginario indiano come terminale delle «trail of tears». Harjo, etnia Seminole e Muscogee, è lui stesso originario di Holdenville Oklahoma e sulle terre tribali dello stato aveva già ambientato due lungometraggi ed un documentario, tutti premiati a Sundance.

Diario a tratti lieve ma che non manca di raccontare drammatici episodi storici

Reservation Dogs riflette la diversità dei popoli originari con un cast corale in cui sono rappresentate diverse generazioni di attori nativi, dai bravissimi giovani protagonisti, a collaudati veterani come Graham Greene (candidato oscar per Balla coi lupi) e Wes Studi (il Geronimo di Walter Hill) ed un vasto assortimento di validissimi caratteristi ed esordienti appartenenti a decine di tribù diverse – e solo per questo la serie promette di lasciare un segno importante come trampolino per molte carriere.

RAPPRESENTAZIONE, quindi, e, sì, riappropriazione della narrazione, riscattata da un secolo di stereotipi hollywoodiani in questa prima produzione creata, interpretata e prodotta da una squadra interamente nativa, ma senza cadere tuttavia nella trappola del didattico o del didascalico. Reservation Dogs è frutto soprattutto dell’esperienza di Harjo e della collaborazione col regista neozelandese, nativo Maori, Taika Waititi (Jojo Rabbit e Last Goal Wins, appena presentato a Toronto), entrambi decisi a smitizzare la «condizione indiana» con umorismo ed autoironia. Ecco gli spiriti guida, imperfetti come gli avi fantasma che popolano il Macondo di «100 anni di solitudine», soprattutto William Knifeman (Dallas Goldtooth) autoproclamato guerriero, caduto a Little Big Horn, col vizio di apparire nei momenti meno opportuni al giovane Bear elargendo sibillini consigli spirituali. Vi sono poi i riferimenti pop-culturali, come le citazioni di Balla coi lupi – che ricordano quelle del Padrino nei Sopranos e l’abbondanza di battute sui paradossi di coniugare l’antica sapienza con l’arte di sbarcare il lunario.
Un atto liberatorio da 500 anni di colonialismo e subalternità, insomma, ma anche dalla mitologizzazione e dall’esotismo del nobile selvaggio. Come ha detto Waititi, «Un tentativo di parlare di nativi in un modo diverso dall’immagine mistica di chi accarezza le praterie e ascolta le risposte del vento». E, aggiunge Harjo, «Trattiamo temi seri, ma sempre attraverso il filtro umoristico, credo sia ora di liberarsi si certi obblighi – le nostre genti sanno ridere, è così che sopravviviamo». Non per questo mancano riferimenti ad episodi particolarmente raccapriccianti come l’evangelizzazione forzata e l’orrore dei collegi indiani, oggetto delle recenti macabre scoperte di cimiteri anonimi e fosse comuni di bambini, sottratti alle famiglie e non sopravvissuti al tentativo di estirparli con la forza e la religione dal loro mondo.

UN DIARIO CORALE dal sapore di un indie movie, capace di liberare i protagonisti dal ruolo monodimensionale di «vittime del genocidio» e restituire una dimensione umana ai ragazzi alle prese col cordoglio, l’elaborazione del dolore e l’angoscia identitaria di cosa fare da grandi. Nella terza serie è sottolineata la dimensione ciclica del trauma, con flashback, ed interi episodi dedicati ad una precedente generazione di amici adolescenti negli anni 70. Un aspetto che arricchisce ancor più la narrazione collettiva con un tocco lieve e letterario, che dimostra per una volta di cosa sia capace, al suo meglio, il formato seriale.

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