Alias Domenica

Réquichot, la guerra dei nervi

Réquichot, la guerra dei nerviBernard Réquichot, "La Cocarde. Le Déchet des continents", Parigi, Centre Pompidou

Parigi Al Centre Pompidou, "Bernard Réquichot. «Je n’ai jamais commencé à peindre»", a cura di Christian Briend, in collaborazione con Manon Thibodot. Una meteora nel cielo dell’Informale. Morto suicida a 32 anni nel 1961, partì da Wols, Dubuffet e Fautrier per farsi placca sensibile, registrando le tensioni psico-emotive nel loro istante

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 2 giugno 2024

Un anno prima della sua morte volontaria, il pittore Bernard Réquichot (Asnières-sur-Vègre, 1929 – Parigi, 1961) redige, su richiesta del suo amico gallerista Daniel Cordier, un curriculum vitae informale, che, mentre ricorda le sue origini provinciali, gli studi in un seminario cattolico, l’iscrizione «utilitaristica» a l’École nationale supérieure des beaux-arts, l’interesse per il buddismo, chiude frettolosamente il testo con il poscritto: «Non ho mai cominciato a dipingere».

Questa affermazione paradossale trova la sua giustificazione in una sorta di intima consapevolezza di aver ricapitolato, attraverso la propria esperienza, in modo accelerato, tutta la storia della pittura, per ritrovarsi infine a un punto inaugurale. Una pittura che dal figurativo – con le opere di soggetto religioso dipinte a partire dal 1941 -–, passando per il cubismo – quello speculativo di Jacques Villon, incontrato nell’atelier di Puteaux nel 1952, e quello di Juan Gris –, è ripartita dall’informale di Wols, Dubuffet e Fautrier, per sviluppare poi una poetica astratta completamente propria.

Una poetica che se da una parte poggia sul gusto della materia, della sperimentazione e del gesto, dall’altra non rispecchia l’approccio «intimista» e «disincantato» che, secondo le parole di Michel Tapié, caratterizza l’Informale. Réquichot si prefigge di partire da immagini caotiche che, non bloccate in una forma fissa, seppur precarie, sono dinamiche, porose e sempre suscettibili di entrare in un nuovo ciclo creativo. Tale impermanenza poetica ce la racconta oggi, fino al 2 settembre, la retrospettiva Bernard Réquichot «Je n’ai jamais commencé à peindre», curata da Christian Briend, in collaborazione con Manon Thibodot, che il Centre Pompidou dedica a questo artista dalla fulminante carriera (catalogo pp. 112, 80 illustrazioni, € 32,00).

Con un percorso cronologico di più di sessanta opere, la mostra ci proietta in un’esperienza artistica che, in scarsi dodici anni (anche se i lavori in mostra sono perlopiù degli ultimi sei), ha visto sovrapporsi un’esigente opera pittorica e una costante attività di scrittura, che insieme si sono configurarti come unico, complesso spazio creativo. La pittura e la scrittura sono per l’artista momenti di rivelazione e al contempo registrazione di stati mentali. E così, dal visibile al leggibile, l’arte di Réquichot si mostra non come proiezione di un’immagine, ma come placca sensibile capace di registrare le tensioni psichiche nell’istante del loro passaggio.

Se c’è una forma archetipa cui l’artista affida costantemente la sua azione, soprattutto a partire dal 1955, questa è sicuramente la spirale.

In un diario di incerta datazione, Réquichot annota che «il delirio che noi crediamo finale possiede una possibilità di analisi, la conoscenza ultima reca in sé una traccia di dubbio, e nell’estrema felicità vi è un’inquietudine che rende sempre più grande la perpetua spirale. Più si prolunga e prosegue il suo percorso, più il corso dei suoi cerchi si accresce in rapidità con una forza di cui non sappiamo dire se è centrifuga o centripeta, ma che è circolare, infinita, crescente e turbolenta. Il suo insieme è il programma del nostro destino, e i leitmotiv di cui è disseminato il percorso dei cerchi sono le costanti della nostra realtà». Il disegno è dunque per Réquichot questo tracciare spirali che rappresentano allo stesso tempo avanzamento e inversione; è un gesto che si auto-genera, e che implica non solo lo spostamento della forma, ma anche l’evoluzione del creatore. E così accade che il segno plastico e il segno scritto si confondano, e le onde registrino e traducano i ritmi emotivi dell’artista.

Réquichot è dunque capace di plurime intuizioni, e di portarle avanti in più serie di lavori contemporaneamente. In particolare, tra il 1956 e il 1957, insieme ai disegni spiraliformi di inchiostro e biacca su cartone, realizza dei dipinti a spatola, dove per la prima volta evoca immagini biologiche, in cui le forme filamentose e flessuose sono monocrome e prevalentemente brune su fondi uniti. Tra queste vi è L’Embryon débonnaire, del 1956, che offre a Roland Barthes, in un saggio dedicato all’artista, lo spunto per una riflessione che lega saldamente l’attività della pittura a quella culinaria (nello specifico, alla ricetta svizzera della raclette, sorta di formaggio fuso spalmabile).

Ed è anche il tempo in cui Réquichot realizza le Traces graphiques, come si intitolano i lavori che, su sfondo dipinto di bianco, quasi a creare un rapporto ambiguo col disegno, dei fasci puntiformi di linee nere e rosse invadono lo spazio, preannunciando una serie del 1960, più pittorica e di ispirazione decisamente cosmica, che va sotto il nome altamente evocativo Ciel prolifique.

Forse l’opera più complessa di questa fase – siamo nel 1957 – è Épisode de la guerre des nerfs, in cui da un magma pittorico emergono linee spiraliformi (come nei disegni di cui abbiamo già parlato). Essa nasce dall’interesse per i libri di psicoanalisi e dei casi di nevrosi (di cui anche l’artista soffriva), e dimostra una nuova modalità di approccio al lavoro. Nell’opera, infatti, vengono inseriti brandelli di tele precedentemente dipinte, divenendo così un collage pittorico in cui viene a inscriversi la provvisorietà del tempo. E queste tele di reimpiego, ridotte a brandelli, si manifestano poi anche come oggetti a sé stanti – sospesi a fili e tridimensionali, a mo’ di scultura – in opere come Iris bizarre, Le Poisson e Portrait, tutte del 1960-’61.

Nella sua tensione a trasfigurare continuamente la materia, Réquichot sviluppa inoltre, a partire dal 1957, i Papiers choisis, una serie di collage in cui, al posto di proprie tele, usa immagini di riviste prese a pacchi in edicola per ritagliarle in modo non sempre riconoscibile, e reiterarle in montaggi a catena insieme a larghe pennellate policrome, continue o discontinue.

Il carattere rizomatico di questi collage, nelle loro incongrue articolazioni e accostamenti, recano tracce di surrealismo, così come la serie dei Reliquaires, sorta di bassorilievi all’interno di cassette in legno chiuse da vetro, che costituiscono una delle invenzioni più originali di Réquichot. Al loro comparire, nel 1955, queste scatole non sono che dei ricettacoli di materie prelevate dalla natura. La Tombe de la nature, ad esempio, con i suoi elementi di terra e legni calcinati, ne è una delle prime manifestazioni, non altro che una sineddoche sotto forma di scultura.

Ma è a partire dal 1957 che tale produzione diviene linguaggio proprio al nostro, fino alla fine dei suoi giorni. Due componenti caratterizzano i Reliquaires: la presenza al loro interno di materie organiche e inerti (come ossa di animali, rami, radici, scarpe ecc.) da un lato, e la copertura di tali contenuti con spessi strati pittorici dall’altro. Così concepite, queste opere si mostrano – lo dice in catalogo Christian Briend – come «oscure casse di cui le viscere repellenti sembrano digerire di continuo oggetti che perdono le loro qualità fisiche quanto più sono ammantati di spessa materia rosseggiante, simile al succo gastrico di qualche animale malefico».

Ed è proprio questa serie dei Reliquaires a costituire l’acme dell’ossessione di Réquichot per il pittorico, il suo punto di svolta, al contempo finale e inaugurale per questo artista prematuramente scomparso. Un punto in cui, fino al delirio, portare all’estremo le potenzialità materiali e spaziali del dipingere.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento