Renzo Mongiardino, basta il “gusto”
In mostra a Milano, al Castello Sforzesco, l’avventura decorativa «surreal-neo-barocca» di Renzo Mongiardino Formatosi con Ponti e Rogers, maturò idee eterodosse che lo distanziarono dal Moderno
In mostra a Milano, al Castello Sforzesco, l’avventura decorativa «surreal-neo-barocca» di Renzo Mongiardino Formatosi con Ponti e Rogers, maturò idee eterodosse che lo distanziarono dal Moderno
Renzo Mongiardino, architetto d’interni e scenografo, è una figura controversa del panorama progettuale milanese della seconda metà del Novecento: forte di una solida carriera maturata all’estero grazie a numerose committenze legate ad alcuni tra i più influenti personaggi del secondo Novecento (tra gli altri, le famiglie Onassis, Thyssen, Rotschild, Agnelli), egli non è mai assurto agli onori della storia e della critica di settore del nostro paese. Una mostra monografica a lui dedicata, da poco aperta al pubblico nella Sala del Tesoro al Castello Sforzesco, tenta di colmare questo vuoto: Omaggio a Renzo Mongiarino 1916-1998.
L’esposizione, curata da Tommaso Tovaglieri con la consulenza scientifica di Francesca Simone, nipote del progettista, si propone quale omaggio per la celebrazione del centenario della nascita di Mongiardino e scaturisce da un’attenta indagine del suo fondo archivistico, donato dagli eredi alla Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli» – e dunque al Comune di Milano, promotore dell’odierna iniziativa – tra il 1998 e il 2002. Composto da oltre trentamila pezzi, provenienti dalla casa-studio al civico 45 di viale Bianca Maria, il lascito è già in parte consultabile in rete perché confluito nel portale Graficheincomune, la raccolta virtuale di grafica e illustrazione libraria del capoluogo meneghino.
L’allestimento al Castello Sforzesco, opera dello Studio De Lucchi, è ispirato alla pittura metafisica, cara a Mongiardino (che ne è influenzato per esempio durante la progettazione della libreria milanese La Bibliofila, 1945), e in particolare alla figura dello ziggurat, qui trasformato in un ampio supporto a gradoni che accoglie trecentodiciasette tra disegni, fotografie, oggetti, maquettes e altro materiale, organizzati in sette sezioni cronologiche a formare quella che viene definita da Francesca Dondina, responsabile del progetto grafico della mostra, «una piccola città/teatro». Una scelta interessante, che però si scontra con la decisione di rimandare l’identificazione del singolo pezzo a un elenco scorporato dall’allestimento, rendendo di fatto più complicata la comprensione della narrazione, specialmente a chi già non conosca il lavoro dell’architetto.
Dagli anni vissuti a Genova agli studi in architettura compiuti sotto la guida di Gio Ponti (con cui Mongiardino si laurea, al Politecnico di Milano, nel 1941) e di Ernesto Nathan Rogers (con il quale lavora durante la sua breve parentesi alla direzione di «Domus»), fino all’epilogo costituito dall’immaginifica Città ideale, nata nel 1996 dalla commistione di suggestioni fantascientifiche e surrealiste, il racconto in mostra si presenta come un’antologia, il cui intento non è l’esibizione del pezzo bello o prezioso, stante l’evidente raffinatezza di molti dei manufatti presentati, ma la ricostruzione dell’iter creativo di Mongiardino, costantemente teso tra il ruolo di arredatore d’interni, in qualità di vero e proprio capostipite di questa disciplina del progetto, di scenografo e, soprattutto, di profondo conoscitore di arte e letteratura antiche e contemporanee, la cui eco riecheggia in colte citazioni disseminate lungo l’intera carriera o nelle affinità elettive instaurate con artigiani, pittori e decoratori quali Francesco Fedeli, Romolo Paganelli e Lila de Nobili. A quest’ultima è dedicata particolare attenzione, motivata dal ruolo chiave svolto nell’introdurre Mongiardino al mondo della scenografia e da un rapporto d’amicizia profonda, sviluppato durante l’adolescenza e proseguito lungo tutta la vita.
Gli innumerevoli lavori esposti al Castello testimoniano di un Mongiardino che oscilla dentro i confini di un’impostazione da lui stesso definita «surreal-neo-barocca», a cavallo tra l’ammirazione subitanea ed effimera per Le Corbusier artista o per Salvador Dalì (a cui rimanda, per esempio, la grottesca cornice del camino per la torre sul monte Argentario di Elsa Peretti) e quella, persistente, per De Chirico e il gusto francese, che impone di decorare riccamente ogni superficie disponibile. Un atteggiamento eterodosso, dirà Mongiardino nel 1994, che lo allontana dai canoni del Movimento Moderno, dalle sue divagazioni e, probabilmente, dalle interpretazioni storiografiche elaborate per spiegare i fenomeni architettonici del ventesimo secolo; per ricondurlo, invece, a un universo in cui l’evoluzione tecnologica non viene rifiutata a priori, ma relazionata all’immutabile archetipo della casa nata con l’uomo. E la scelta tra una sedia in tubolare d’acciaio o una poltrona Luigi XVI si riduce a pura questione di gusto, dell’architetto e del suo committente.
Importante chiave di lettura della mostra è proprio il ruolo della committenza, che sorride a Mongiardino fin dai primi anni: grazie al matrimonio della sorella Rosellin con un membro cadetto della famiglia Crespi, rinomati imprenditori lombardi, diviene l’arredatore prediletto dell’alta società, non solo milanese, e inizia il proprio percorso di avvicinamento alle grandi occasioni di allestimento teatrale e cinematografico. Nel 1960 firma la scenografia per i Due gentiluomini di Verona, per la regia di Peter Hall, ricca di rimandi alla figurazione del Rinascimento italiano, evocato attraverso il bugnato del Palazzo dei Diamanti di Ferrara o decorazioni ispirate alle terrecotte bramantesche di Agostino De Fonduli, osservate al vero nella sacrestia della chiesa di Santa Maria presso San Satiro. È però l’incontro con Franco Zeffirelli a proiettare Mongiardino sul palcoscenico internazionale, grazie alle scene disegnate per Tosca nel 1964 e a quelle del film La bisbetica domata, che tre anni più tardi gli valgono una nomination agli Oscar e il primo interesse di magnati internazionali e protagoniste delle pagine di gossip: nel 1965, realizza gli interni della casa londinese di Lee Radziwill e, sul finire del decennio, quelli della villa della sorella Jacqueline Onassis sull’isola di Skorpios. Tutti interventi in cui domina il principio della commistione di ispirazioni profondamente dissimili, che culminano con la straordinaria tarsia lignea per lo studio del collezionista Peter Sharp (1985), in cui i capolavori milanesi di Bramante si stagliano sullo sfondo di grattacieli newyorkesi raffigurati come cattedrali gotiche.
Accanto ai materiali provenienti dall’archivio sono esposti oggetti d’affezione, prestati da collezionisti privati: un plastico in metallo raffigurante la torre di Pisa e la statua di un Automa a foggia di cinese, realizzato da un artista francese nel XIX secolo e originariamente collocati nell’ingresso dell’abitazione di Mongiardino; cubi-tavolino, in varie misure, e tre lampade, di nuovo in metallo, progettate tra gli anni sessanta e ottanta. Immancabile quello che pare essere un must have delle mostre contemporanee: un breve video, montaggio di immagini e riprese d’epoca – realizzato a cura di Floriana Chailly e Paolo Santagostino – in cui si scorgono alcuni degli interni realizzati dal progettista.
La mostra è infine accompagnata da due pubblicazioni, entrambe edite da Officina Libraria: un agevole catalogo a cura di Tommaso Tovaglieri (pp. 80, euro 10,00), e la riedizione, a cura di Francesca Simone e con prefazione del critico d’arte Giovanni Agosti, del testamento teorico di Mongiardino Architettura da camera (pp. 240, euro 45,00): ampliato nel corredo iconografico originario e rivisitato nella sua veste grafica, il volume era stato concepito e dato alle stampe da Mongiardino nel 1993 quale manuale per la progettazione d’interni, ma articolato in una serie di lezioni monografiche sul metodo e le regole adottate nella propria produzione.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento