Renzi: «Non è monopoli Non torno indietro»
Democrack La minoranza Pd tenta ancora la mediazione. Sarà no compatto, ma solo all’assemblea dei deputati. Speranza, voci di dimissioni da capogruppo. Bersani al suo primo no alla Ditta. Rischia di essere rottamato dalla sua stessa corrente
Democrack La minoranza Pd tenta ancora la mediazione. Sarà no compatto, ma solo all’assemblea dei deputati. Speranza, voci di dimissioni da capogruppo. Bersani al suo primo no alla Ditta. Rischia di essere rottamato dalla sua stessa corrente
L’ora della verità per la minoranza Pd si avvicina a grandi passi, grandi come le falcate nervose con cui ieri Pier Luigi Bersani percorreva il Transatlantico discutendo con Andrea Giorgis, deputato dem che è anche docente di diritto costituzionale e per questo non ha una bella opinione dell’Italicum. L’ex segretario Pd, alla vigilia del suo primo voto contrario alla ’Ditta’, non anticipa niente ai cronisti. «Parlerò domani», cioè oggi all’assemblea del gruppo. Ma avverte: «E se non ci sono novità, so già cosa dire».
Ieri mattina le minoranze Pd si sono riunite nell’aula Berlinguer e hanno preso una decisione unitaria, forse per l’ultima volta: se il premier-segretario non farà nessuna apertura alle modifiche delle riforme, i bersaniani di ogni disposizione d’animo, i cuperliani e l’unico civatiano superstite a Montecitorio – cioè Civati stesso, visto che Luca Pastorino, candidato in Liguria, è ormai nel misto – voteranno no alla relazione. Ma di qui al voto contrario in aula, dove l’Italicum approderà il 27 aprile, ce ne corre.
Ieri i 5 stelle hanno proposto alla minoranza Pd di non sfilarsi dalla battaglia in prima commissione, dove i dissenzienti dem fin qui sono più dei renziani (alcuni oggi decideranno se chiedere di essere sostituiti). Qui i numeri consentirebbero una modifica, almeno temporanea, dell’Italicum. Nessuna risposta, per ora.
La minoranza dialogante in queste ore cerca ancora di ottenere da Renzi qualcosa, anche solo un gesto, che gli consenta di votare sì senza perdere la faccia, dopo le tante critiche espresse alla legge. E se l’Italicum è intoccabile, così ha deciso Renzi, sarebbero possibili ancora alcuni ritocchi minimi almeno sulla riforma del senato che prima o poi tornerà all’esame di palazzo Madama. Cambiamenti insignificanti, gli unici consentiti al terzo passaggio in aula: ironia della sorte, potrebbero essere cancellate proprio le blande modifiche ottenute dalla stessa minoranza alla camera.
Ma Renzi non sembra intenzionato a concedere neanche una vittoria simbolica. Ieri lo ha detto senza mezzi termini dall’inaugurazione del Salone del Mobile a Milano: l’iter dell’Italicum, ha spiegato, «non è Monopoli, non si può ricominciare e tornare a Vicolo Corto. Ora si decide, dopo anni e mesi di dibattiti e discussioni». È la versione pop di quello che ha detto Giorgio Napolitano lunedì scorso («Non si può tornare indietro»).
Questo non significa che oggi il presidente del consiglio rinuncerà a dividere Area riformista. Chi ci ha parlato riferisce che comunque terrà toni non bulli, pur non escludendo la possibilità di chiedere un voto di fiducia. Eventualità che tutte le minoranze chiedono di escludere e che invece Renzi lascia ancora balenare. È escluso che gli 80 firmatari dell’appello per il dialogo voterebbero no alla fiducia. E se una trentina – forse meno – di irriducibili sono pronti a non votare l’Italicum (fra cui l’ex segretario Bersani, l’ex presidente Pd Bindi, lo sconfitto del congresso Cuperlo, e poi ancora Fassina e D’Attorre), il conto di quelli disponibili a votare no alla fiducia al governo sarebbe ancora più esiguo. Solo Civati da tempo annunciato il suo no nell’uno e nell’altro caso: «Non so come andrà la votazione dell’Italicum. So che non lo voterò, che se metteranno tre volte la fiducia (prima che il gallo canti) non darò il mio assenso».
Morale: per Renzi sarà un ’successo’ annunciato, da esibire nel tour elettorale nelle regioni al voto, che partirà domenica prossima. Per i bersanian-cuperliani sarà Caporetto: spaccati in due, isolati gli irriducibili e invitati all’uscita, e infine mandati di fatto in pensione i già ex leader Bersani e Cuperlo. E così compiuta la mutazione genetica del Pd nel Pdr, il partito di Renzi.
A conferma di questo scenario apocalittico ieri si è aggiunto un dettaglio rivelatore. Sarebbero in arrivo le dimissioni di Roberto Speranza da capogruppo dei deputati Pd. Ventilate, messe a disposizione più volte da lui stesso, stavolta sarebbe deciso a rassegnarle per essere più libero di fare il capofila della minoranza bersaniana 2.0, quella liberata dalla presenza della ’vecchia guardia sconfitta’ (Bersani, Bindi e ma aanche Cuperlo). E in pratica rilanciata dalla rottamazione del suo fondatore. Non è quello che vuole Renzi, al quale un moderatissimo capo di corrente per di più costretto al profilo istituzionale di un presidente dei deputati è assai più utile. Naturalmente Speranza fa circolare ampie smentite. E però questo pomeriggio alle sei, due d’ore prima dell’assemblea del gruppo, i due hanno preso un appuntamento.
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