Renzi: «Da noi la sinistra vuole conservare»
Democrack Renzi da New York attacca la sua minoranza interna. «Lunedì discutiamo, poi avanti tutti insieme». Dal blog di Grillo una polpetta avvelenata per il dissenso dem: «Compagni, mandiamolo a casa». E al senato parte la legge
Democrack Renzi da New York attacca la sua minoranza interna. «Lunedì discutiamo, poi avanti tutti insieme». Dal blog di Grillo una polpetta avvelenata per il dissenso dem: «Compagni, mandiamolo a casa». E al senato parte la legge
Il premier Renzi tratterà con la sua minoranza interna e riscriverà la delega sul jobs act in modo potabile per le minoranze Pd? Oppure lunedì in direzione sceglierà lo scontro frontale e piegherà il dissenso alla disciplina di partito, correndo il rischio di un cambio di maggioranza per portare a casa la sua riforma? Come sempre, la risposta la sa Renzi e solo Renzi. E forse al momento non la sa neanche lui. Ieri ha avuto un’altra impegnativa giornata newyorkese. Non che non sappia minuto per minuto quello che succede a casa. Il presidente ha anche letto il duro editoriale di Ferruccio De Bortoli sul Corriere della sera. Ai cronisti che lo seguono consegna una replica gelida: «Auguri e in bocca al lupo al Corriere per la nuova grafica». A dargli man forte Sergio Marchionne, che incontra al Council of Foreign Relations: «A me questo ragazzo piace, un grande coraggio», dice di lui; e quanto al giornale di cui è azionista: «Non lo leggo normalmente».
Ma è il jobs act la prima grana che Renzi dovrà affrontare al ritorno, domani. «Lunedì presenterò in direzione le mie idee», poi «ci sarà un dibattito, si discute e alla fine si decide, si vota e si fa tutti nello stesso modo, si va tutti insieme», spiega ai giornalisti. Sembra un’apertura al dialogo. Ma poi parla al Council of Foreign Relations, descrive la sua «rivoluzione» e dà una zampata ai compagni di partito: «Le persone della sinistra, leader della mia parte politica e non della destra, pensano che va ad ogni costo mantenuto lo statuto dei lavoratori e che questo è l’unico modo per essere uomini di sinistra», sul lavoro «bisogna cambiare l’approccio».
Quasi contemporaneamente a Roma, al senato, la legge delega inizia il suo iter. La illustra Maurizio Sacconi, ex ministro berlusconiano, oggi nelle file di Alfano, oggi il miglior ispiratore della «rivoluzione» renziana. Il paradosso è tale che il relatore si cava lo sfizio di citare il laburista Blair per elogiare le nuove norme e la cancellazione dell’art.18: «values don’t change. But times do», i valori non cambiano ma cambiano i tempi. Alla fine il senato respinge la pregiudiziali di costituzionalità di Sel e 5 stelle.
Il jobs act è dunque ufficialmente partito. Ma a casa dem regna la confusione. La posizione del Pd sarà decisa lunedì in direzione. Ma per le minoranze la situazione è sempre più scomoda. Al senato in quaranta hanno presentato sette emendamenti che costituiscono, nelle intenzioni, un’offerta di armistizio. I renziani li hanno definiti «veti inaccettabili». Ma nello stretto cerchio del segretario c’è anche chi punta a smussare gli angoli. Basta il no di dieci senatori per far scattare il ’soccorso azzurro’ dei voti forzisti, che in pratica aprirebbe la strada a un cambio di maggioranza. A Palazzo Madama l’area Civati ha sette voti. Sommati a qualche personalità di area ’Chiti’ o di area riformista – quella in maggiore difficoltà se Renzi invocasse il voto secondo disciplina – basterebbero ad aprire la crisi politica.
Ma ieri gli ex bersaniani hanno dovuto passare la giornata a smarcarsi dalle provocazioni di Beppe Grillo. Sul suo blog Aldo Giannuli, consulente del movimento dato sempre più nelle grazie del capo, offre l’abbraccio mortale agli esponenti della minoranza Pd: «Renzi sta riuscendo dove non sono riusciti Monti e Berlusconi, sta trattando la Cgil come uno straccio per la polvere: compagni del Pd cosa aspettate ad occupare le sedi e far sentire la vostra voce?». La battaglia sull’art.18, conclude, è «l’occasione per mandare a casa Renzi». Persino «compagni», li chiama. Una polpetta avvelenata. Da giorni per transatlantici di camera e senato circola la vulgata che la battaglia sulla legge delega è solo una scusa per tirare giù Renzi. Funziona sempre, a sfregio dell’evidenza: gli onorevoli dem sono compatti contro il voto anticipato. «Sono anche quelli del ’giglio magico’ a mettere in giro questa cosa», spiega Rosy Bindi, «non ci sono solo i renziani della prima ora a dire questo, ci sono anche quelli della seconda. Non fanno il bene del capo, in questo modo».
Ma la proposta dei 5 stelle è un assist favoloso per Renzi. Gli esponenti della minoranza sono costretti alla difesa: «Non credo che dobbiamo rispondere a stupide provocazioni. Far cadere Renzi sarebbe da irresponsabili» (Cuperlo). «Ogni tentativo populista di Grillo lo respingiamo al mittente» (Boccia), «Grillo è un piccolo Ayatollah e non sa cosa sia un partito e il valore prezioso del dibattito interno» (Gotor). Ma è chiaro che Renzi userà l’argomento per indebolire il dissenso.
Stando così le cose, lo spazio per una mediazione si restringe a vista.Anche se la leader Cgil Susanna Camusso ci prov, a proposito del nuovo contratto che parte senza art.18: «Se il periodo di prova deve essere maggiore dobbiamo parlarne, sento parlare di tre o sette anni, non è la stessa cosa. Comunque possiamo discuterne». E infatti «stiamo discutendo, c’è ancora tempo per avvicinare le istanze per una soluzione ragionevole», predica Matteo Orfini, presidente del Pd, terzista nello scontro in atto. Ma sembra più una speranza che un dato di fatto
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