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Renzi ha sepolto il centrosinistra

Renzi ha sepolto il centrosinistraFirenze – Aleandro Biagianti

L'articolo Per tentare un’altra strada bisogna tenersi alla larga dall’antropologia neoliberista che ci attraversa un po’ tutti. E creare luoghi in cui incontrarsi più che contarsi

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 luglio 2014

Da un certo punto di vista oggi ci sarebbe uno spazio enorme per il progetto dell’Altra Europa con Tsipras. Praterie sconfinate di orfani di rappresentanza.
Nell’Italia ridisegnata dalla riforma istituzionale ed elettorale l’unica camera che conta conta zero rispetto al governo. Il partito di maggioranza, anche molto relativa, prende la stragrande maggioranza dei seggi, chi non ci sta è fuori e gli eletti (eletti dal capo) decidono del Presidente della Repubblica e della Corte Costituzionale. Tutto. Naturalmente al servizio dei mercati e della finanza.

Sarebbe già importante semplicemente offrire una alternativa a questo modello renziano simpaticamente iperliberista e post-democratico. E invece non è affatto semplice. Oppure è la semplicità difficile a farsi.
Perché dopo le elezioni europee sono stati fatti un mare di casini, anche da persone proprio notevoli. Pasticci sorprendenti per certi versi. Perché era chiaro come il sole che le relazioni costruite con partiti organizzati e cittadinanza politica erano assai delicate e richiedevano attenzione e cura. Che invece sono state scarse. Non è una tragedia irreparabile né qualcosa di incomprensibile. Per fortuna chi ha votato la lista non è che si appassioni più di tanto alle beghe interne post elettorali, lo abbiamo visto in molte assemblee – anche se un po’ si può scoraggiare.

Tutti poi sanno che la composizione delle candidature è il momento più tragico della pratica politica. Un miracolo uscirne vivi. Peraltro la famosa società civile è tutt’altro che luogo immacolato, al riparo dalle derive che connotano il ceto politico. Una antropologia neoliberista attraversa un po’ tutti noi. Produce individualismo, competizione, aggressività, patriottismi di sigle e di anti-sigle, da cui nessuno è immune. Sarebbe già un passo avanti esserne consapevoli. Costruire un soggetto collettivo all’altezza di questo universo di solitudini rabbiose e affidamenti leaderistici è complicato. Inventare è una fatica terribile.

Soprattutto se manca la spinta, un po’ di entusiasmo e fiducia. Soprattutto se il desiderio di politica che c’è si fa di tutto per deprimerlo.

Perché una passione, malgrado tutto, si sente intorno a noi. Malgrado noi. Non fosse che per questo totalitarismo renziano dei media, che non può non generare un rivoluzionario desiderio di pensiero. Se avete visto Francesco Piccolo da Lilli Gruber sapete di che parlo.

Ma sarebbe importante assumere lo sguardo degli assenti. Il loro sentimento.

E se ci allontaniamo un po’ dai casini dei gruppi pre o post dirigenti – diciamo così – tutte e tutti abbiamo dentro l’altro. Il contatto con la parte più politica, cioè intima, di noi. La sensazione che sono decisamente di tutt’altra natura le cose che contano.

Conta esserci nel mondo, interi in un mondo di relazioni. Esistere. Cosa molto diversa dall’avere tre rappresentanti – quando poi mancano collettivamente i rappresentati. O da una serie di sigle più o meno federate. Conta creare uno spazio politico decente. Cioè capace di praticare conflitti che salvino diritti, territorio, beni comuni. Una comunità politica. Capace di accogliere e ascoltare storie personali, bisogni di relazioni altre da quelle mercificate e competitive dell’ordine simbolico dominante. Narrazioni. Sguardi di donne e uomini che sanno la loro appartenenza di genere e inventano la loro singolarità.

È una dimensione comunitaria che secondo me dovrebbe riconoscersi e crescere, prima e dentro qualunque progetto di soggetto politico e di organizzazione. Oppure l’organizzazione dovrebbe avere di mira questa dimensione collettiva interpersonale da curare. Essere contenitore di processi viventi, attento a non soffocarli nelle pratiche elettorali dalle passioni tristi. Anche non puntando troppo sul principio sacro “una testa un voto”: se quelli diventano i luoghi in cui più che incontrarsi ci si conta, si finisce per fare a gara a portare più teste per avere più voti. Fine del film. Vincere sarebbe restare soli.

Dunque forse occorrerà anche una certa pazienza e molta fiducia, che è virtù rara: nelle scuole ci si lamenta continuamente degli studenti, eppure non si può insegnare niente a nessuno se non si ha fiducia in lui. E non si fa politica sulla base del sospetto. Ci vorrà il tempo necessario perché si sciolgano i molti nodi che ci aggrovigliano l’anima. Perché si pratichi l’eutanasia delle antiche appartenenze. Pure legittime e nobili.
E però c’è anche una urgenza. Che non è tanto la scadenze delle regionali o roba del genere. Anzi sarebbe magnifico se fosse possibile una moratoria da quelle scadenze. È che lo sguardo degli assenti, cioè di tutti noi, dentro, vive una emergenza. Di cultura, lavoro, democrazia.

Non abbiamo un temo infinito, non possiamo creare luoghi fluidi solo per continuare altrove i percorsi di sempre. Tipo, se va male si torna lì, teniamoci buona l’organizzazione e la bandiera, non rischiamo troppo. Secondo me nessuno dovrebbe immaginare di poter raccogliere i cocci di un ennesimo fallimento.

Il centrosinistra è stato cancellato da Renzi, strepitosamente autosufficiente. Non c’è più spazio lì, se non alla sua corte. Chi vuole tentare un’altra strada, vivere un’altra esperienza di vita politica può impegnarsi altrove, magari anche felicemente. Perché c’è un mondo di relazioni umane da liberare, un altro modo di essere donne e uomini da inventare. E questa volta deve essere proprio vita.

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