Renzi, gruppo anche al senato Art.1: la Ditta non rientra nel Pd
#senzadite Sono 26 i deputati scissionisti, 12 i senatori, a cui Nencini offre «casa». Primo arrivo da Fi. Zingaretti rilancia l’orgoglio dem, il 23 direzione. Marcucci resta il capo dei senatori, fra le lacrime
#senzadite Sono 26 i deputati scissionisti, 12 i senatori, a cui Nencini offre «casa». Primo arrivo da Fi. Zingaretti rilancia l’orgoglio dem, il 23 direzione. Marcucci resta il capo dei senatori, fra le lacrime
L’evento della giornata doveva essere il confronto fra il segretario del Pd Nicola Zingaretti e quello di Art.1, il neo ministro Roberto Speranza, alla festa dei primi fuoriusciti dal Pd, alla Città dell’Altra Economia di Roma. Doveva essere alle sei del pomeriggio. Tanti gli occhi puntati: Renzi giura che, dopo la sua fuoriuscita, nel partito rientreranno quelli della «Ditta». E il Pd diventerà un covo di postcomunisti. È purissima propaganda: ci sono ex margheritini ed ex dc in tutte le posizioni strategiche del nuovo corso zingarettiano (Franceschini capodelegazione al governo, Sassoli presidente dell’europarlamento, Delrio capogruppo alla camera, per la presidenza del Pd circola il nome di Roberta Pinotti, franceschiniana). Ma tanto basta per produrre un «improvviso cambio di agenda» al leader dem. Zingaretti non va, l’incontro salta. La versione del Nazareno è che gli organizzatori di Art.1 sapevano dell’annullamento da «almeno cinque giorni». Gli alleati sostengono di aver ricevuto la disdetta solo la sera precedente, e anche sul tardi.
AGENDE A PARTE, sembra evidente che il segretario Pd vuole evitare di mostrarsi, all’indomani della rottura, in eccessiva armonia con quelli della «Ditta». Per non regalare nuovi argomenti allo scissionista. Quelli di Art.1 ci restano male. C’è chi sbotta: «È inutile cercare di nascondere i processi politici in corso». Ma davanti ai giornalisti Speranza dà una mano al Pd: «Il mio cuore batte a sinistra, quello di Renzi al centro. Non siamo usciti dal Pd per Renzi e non saranno le scelte di Renzi a farci rientrare». Questione chiusa, per ora. Ma la dice lunga sulla prudenza con cui Zingaretti procede alla «rifondazione del Pd». E sul timore di tornare ad essere la casa «anche» per tutti quelli i fuoriusciti da sinistra.
PER IL NAZARENO è il momento del «serrare le file» fra chi resta. Per lunedì 23 è convocata la direzione del rilancio del partito dopo la scissione. Ma già ieri pomeriggio Zingaretti convoca una ventina di sindaci Pd delle città capoluogo. Il confronto, che dura tre ore, serve a infondere nuovo orgoglio e assicurare ai primi cittadini che il partito punta su di loro. Per tutti alla fine parla un (ex?) renziano doc, Giorgio Gori, sindaco di Bergamo: «Si sta dentro e si rilancia».
IL FUTURO, DEL PD ma anche del governo, passa per Renzi: ora giura che sarà fedele a Conte (l’affidabilità delle sue parole è storia nota, e non dall’estate ’19) ma già tende la prossima trappola a Zingaretti: sulla legge elettorale lui preferisce il maggioritario, assicura, «ma sosterremo l’accordo di governo». Tradotto: si farà il proporzionale che a lui conviene, ma la «colpa» ricadrà sul segretario del Pd. Ma il segretario «è da sempre contro il proporzionale», ricordano i suoi.
LA TENUTA DEL GOVERNO passa anche dalle prossime regionali. Il primo test sarà l’Umbria, il 27 ottobre. Lì l’accordo con i 5 stelle su un nome «civico» è questione di ore. Poi però toccherà alla Calabria e all’Emilia Romagna. Entrambi casi più complicati. E su entrambi i fronti degli ex nemici ora promessi alleati: in Emilia Romagna Matteo Richetti, che ha appena lasciato il Pd per finire fra le braccia di Calenda, minaccia di non votare per il nome dem «se farà l’accordo con i 5 stelle», in Calabria sono i 5 stelle a resistere alla trattativa.
INTANTO ARRIVANO i nomi e i numeri ufficiali degli scissionisti alle camere. Sarà martedì il giorno della nascita dei nuovi gruppi. Sono 25 i deputati che fanno le valigie verso «Italia viva», a cui arriveranno in due «esterni» dal Misto. 12 invece i senatori. Lo annuncia il renzianissimo presidente del gruppo dem di palazzo Madama Andrea Marcucci, quello nel cui studio di Via Veneto si sono svolte molte riunioni di corrente, che versa anche qualche lacrima quando spiega le ragioni della sua scelta di restare: «Rimango perché credo nel progetto riformista del Pd, ma metto a disposizione il mio ruolo. Non sono rimasto perché qualcuno mi ha detto che così sarei rimasto a fare il capogruppo. I senatori del Pd devono ritenersi liberi di prendere qualsiasi decisione». I senatori applaudono. Resterà. Anche perché gli scissionisti hanno fatto i conti per non fargli perdere la maggioranza. Cosa che consente qualche dubbio sulle professioni di fedeltà che in queste ore arrivano dagli ex famigli del senatore di Scandicci.
DEL RESTO IL NAZARENO sembra intenzionato a porgere l’altra guancia, per non fornire alibi per nuovi addii. Anzi, ci saranno nuove «promozioni» nelle commissioni dove il Pd deve rimpiazzare chi va via. Le trattative sono in corso.
TRATTA ANCHE RENZI per avere un gruppo tutto suo al senato. Il regolamento varato dalla presidenza Grasso non consente di formare quello di «Italia Viva», ma consente di formare un gruppo con una sigla presentata al voto in alleanza. È il caso di «Insieme» del socialista Riccardo Nencini. Al Pd piacerebbe un Renzi «sterilizzato» nel gruppo misto, ma già oggi potrebbe essere ufficializzato l’accordo con Nencini per un gruppo nuovo. Che spalanca le braccia ai forzisti in dissenso. Il primo arrivo dagli azzurri è già ufficiale: Donatella Conzatti.
E infine anche dentro il Pd c’è aria di nuovi patti: Base Riformista, i renziani «collaborativi» con il nuovo corso zingarettiano, fanno notare di aver «retto». Dalle file di Guerini e Lotti «solo» in 15 sono partiti. Presto la corrente passerà ufficialmente in maggioranza. Del resto in segreteria ci sono da riempire le caselle lasciate vuote dalla pattuglia passata al governo.
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