Renzi è accerchiato E Prodi si arrende: levo le tende dal Pd
Democrack Il leader teme la tenaglia per non fargli fare il candidato premier Orlando: fare il federatore incompatibile con Palazzo Chigi. Prima Veltroni, poi Franceschini avanza un dubbio: «Qualcosa non va», subito bacchettato. D’Alema: «Se dopo il voto siamo forti potremo incalzarli sul programma. E sulla leadership»
Democrack Il leader teme la tenaglia per non fargli fare il candidato premier Orlando: fare il federatore incompatibile con Palazzo Chigi. Prima Veltroni, poi Franceschini avanza un dubbio: «Qualcosa non va», subito bacchettato. D’Alema: «Se dopo il voto siamo forti potremo incalzarli sul programma. E sulla leadership»
Veltroni, Prodi e anche Franceschini. Da ieri a alzare la paletta rossa dell’alt di fronte alla ormai incerta marcia di Matteo Renzi non c’è solo la fragile minoranza interna del Pd in combinato disposto (in realtà non perfettamente disposto) con gli ex Pd e con Giuliano Pisapia. Ieri Walter Veltroni batteva un altro colpo (è il secondo) da Repubblica: il Pd si è trasformato «in una prosecuzione della Margherita», dice, ma quello che è peggio è che Renzi ha isolato il partito, che è l’accusa di Andrea Orlando: «Al Lingotto dicemmo: vocazione maggioritaria ma non autosufficienza. Mi auguro che sia possibile costruire un campo largo».
La ricostruzione è un bel po’ forzata: nel 2008 Veltroni rifiutò l’alleanza a sinistra, facendo eccezione per la sola Idv di Di Pietro, che una volta in parlamento fece subito gruppo a parte. Fatto sta che il primo segretario del Pd deve aver cambiato idea.
POI TOCCA A ROMANO PRODI. Legge sul Corriere della sera e sul Giornale una frase di Renzi, per la cronaca una frase molto ’veltroniana’: «Lo schema di Pisapia, Prodi e tanti altri era chiaro (…) ma non ha funzionato (…) anche alle elezioni nazionali conviene che il Pd vada da solo e non in coalizione». Il professore incassa, e incassa male: «Leggo che il segretario del Pd mi invita a spostare un po’ più lontano la tenda. Lo farò senza difficoltà: la mia tenda è molto leggera. Intanto l’ho messa nello zaino». I cucitori di toppe corrono ai ripari, giurano che il fondatore dell’Ulivo «è un riferimento» (Lorenzo Guerini), «con lui nessuna polemica» (Maurizio Martina), ma Renzi lascia correre con noncuranza.
INFINE È LA VOLTA di Dario Franceschini. In un tweet avanza un dubbio: «Bastano questi numeri per capire che qualcosa non ha funzionato? Il Pd è nato per unire il campo del centrosinistra, non per dividerlo». Il riferimento è a Renzi, e alla sua minimizzazione dello smacco delle amministrative. Stavolta invece il pontiere Guerini dà una risposta gelida: «Inviterei tutti alla calma. Il 10 ci sarà una direzione e lì discuteremo sulla situazione politica. Servono calma e responsabilità per il ruolo che il Pd ha nei confronti degli elettori. Calma e responsabilità rispetto a esasperazioni che non servono».
LA SINDROME dell’accerchiamento, per il segretario, ormai non è solo una percezione. È Renzi ad essere «divisivo», centro e fuori il Pd, a non potersi presentare in campagna elettorale come bandiera delle proprie liste locali. La domanda sottintesa è: ma che razza di candidato premier è un leader così?
A CHIARIRE I TERMINI della questione è Andrea Orlando che riunisce a Roma la sua corrente e quasi quasi provoca: «Vogliamo essere una lobby per la costruzione del centrosinistra», dice, e poi esplicita quello che gli altri non dicono, o non ancora: «Chiediamo a Renzi di utilizzare la forza che ha avuto al congresso per tessere la tela di relazioni che fino a qui non è stata costruita» ma – c’è un ma, una condizione, una trappola – «questo è un lavoro difficilmente compatibile con il ruolo di capo della coalizione e di candidato premier. Renzi può essere il federatore, ma il federatore non può essere il candidato premier».
IL DISCORSO DI ORLANDO spazia dalla ricostruzione del progetto del Pd (a partire da una critica a jobs act e buona scuola), al varo di un regolamento per i referendum interni al Pd (da sempre nello statuto ma mai regolati per evitare che a qualcuno salti in mente di usarli contro il segretario di turno) fino alle ragioni della partecipazione alla «piazza» di Pisapia, il primo luglio a Roma: «Perché condivido la sua parola d’ordine, provare a ricostruire questo campo, ma anche per ricordare a chi è lì che non c’è centrosinistra senza Pd».
FIN QUI QUESTE PAROLE potevano sembrare diverse, persino il contrario di quello che la nuova Ditta Bersani&Pisapia propone. Ma se in via di ipotesi, dopo il voto – sempreché voti arrivino – non fosse Renzi il papabile presidente del consiglio di una nuova legislatura ma un altro (o un’altra)?
PERSINO MASSIMO D’ALEMA, che fino ad adesso era il più duro nel bocciare l’alleanza con il Pd, due sere fa ha avanzato un’ipotesi un po’ più circostanziata di quelle che circolano nelle discussioni di questi giorni alle assemblee regionali di Mdp, e che preparano l’iniziativa di piazza Santi Apostoli a Roma: «Fare le primarie con Renzi sarebbe come una roulette russa. Se viene il colpo sbagliato…», ha detto, fra le risate dei militanti. Ma poi l’ex ministro degli esteri non ha escluso l’alleanza con il suo ex partito, «però una cosa è arrivarci con la forza e poter negoziare i contenuti e la leadership, altra è consegnarsi». Insomma, ha spiegato ai militanti, «se saremo forti dopo le elezioni potremo incalzare il Pd sul piano programmatico. Della leadership». Della leadership, o come si sarebbe detto un tempo, più precisamente della premiership.
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