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Renzi alla riconquista di palazzo Chigi con il partito nel trolley

Renzi alla riconquista di palazzo Chigi con il partito nel trolleyRenzi al Lingotto, ieri – LaPresse

Kermesse Al Lingotto di Torino per presentare la sua mozione congressuale, il leader chiarisce: il segretario del Pd è il candidato premier

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 11 marzo 2017
Riccardo ChiariInviato a Torino

La Leopolda è più bella, ma qui al Lingotto c’è il simbolo del Pd, in versione bicolore. Bianco e verde, forse perché il padrone di casa è, non certo da oggi, allergico al rosso. Dovrebbe essere la presentazione della mozione congressuale di Matteo Renzi, l’aria che si respira è però quella di una pre-incoronazione.

LO DICONO I SONDAGGI, che vedono il segretario uscente trionfante soprattutto fra i tesserati piddini – una novità rispetto al 2013 – rispetto al «popolo dei gazebo» che comunque gli vuole ancora bene. Lo racconta un parterre de roi che, in questi tre giorni, vedrà arrivare quasi tutto il governo Gentiloni.

Lo rivendica lo stesso Renzi, che oggi doveva limitarsi a un saluto e che invece conciona per un’ora abbondante. Come tanto gli piace, e con una chiara dichiarazione programmatica: «O il Pd disegna i prossimi dieci anni, o il Pd non serve più». Il suo Pd, sia chiaro, nonostante un accenno di autocritica («occorre più collegialità») dalla quale sono comunque esclusi i cosiddetti scissionisti che hanno formato Mdp: «Siamo il partito degli eredi – urla non una ma due volte – non il partito dei reduci. Altrimenti il futuro è di chi sa solo contestare. Di chi dice solo ‘no’».

Il paffuto trentenne che nel 2006 tramortiva gli incauti lettori con Tra De Gasperi e gli U2 ha ampliato le sue conoscenze musicali; ancorché vintage (1998), le session di Kruder e Dorfmeister sono una piacevole sorpresa in un Lingotto macchiato di verde sprite con lo slogan «Tornare a casa per ripartire insieme».

 

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Ripartire con il trolley e con alcuni punti fermi della predicazione veltroniana, spiegati dal braccio destro economico di Renzi, Tommaso Nannicini, in un’intervista alla torinesissima Stampa: «Al Lingotto è iniziata la storia di un partito a vocazione maggioritaria che non si rassegna alle regole della democrazia consociativa. Quella che uno va a votare, poi si decide con chi allearsi a tavolino dopo le elezioni».

A ruota l’altro principio che non va messo in discussione. Qui è il segretario uscente, quasi sicuramente rientrante, a dettare personalmente la linea: «Che il segretario del partito sia il candidato premier, è consuetudine europea. Quando ho incontrato per la prima volta Angela Merkel, il mio biglietto da visita non era il ruolo di presidente del consiglio italiano. Era 11,2, i milioni di voti presi alle elezioni europee del mio partito, dal Pd».

APPLAUSI CHIAMATI facilmente, ma non solo: anche se ci sono i complimenti per il lavoro dell’esecutivo di Paolo Gentiloni («il governo va avanti, appena ieri ha approvato il reddito di inclusione e il jobs act dei lavori autonomi, per questo siamo convintamente al fianco di Gentiloni e dei suoi ministri»), la rivendicazione del duplice ruolo segretario-premier taglia la testa a qualsiasi altra ipotesi. Insomma Renzi si è già ricandidato per Palazzo Chigi, e il tempo che manca da oggi alla primavera del prossimo 2018 gli servirà, una volta vinto il congresso, per strutturare il partito a sua immagine e somiglianza.

Ma anche collegialità ci vuole. Per questo arriva un messaggio distensivo verso la dialettica interna: «Siamo qui per discutere, dialogare, per ridare senso alla parola ‘compagni’, che vuol dire ‘cum panis’, condividere». Poi gli aperti complimenti a Maurizio Martina, lombardo, che lo affianca nella corsa congressuale. E la chiamata alla standing ovation per la coppia Chiamparino-Fassino, piemontesi, che lo ascoltano uno accanto all’altro nella prima fila della platea. Perché, fra referendum costituzionale e inchieste della magistratura, il giglio magico è un po’ appassito. E i tempi stanno cambiando. Solo che invece del profetico, giovane Dylan tocca ascoltare, per ben due volte, l’antica Strada Facendo del Baglioni nazionale.

Fra gli accenni di autocritica, anche perché il comparto – che vota – va recuperato, compare la cosiddetta «buona scuola»: «Dobbiamo dirci che alcune delle riforme che abbiamo fatto non hanno funzionato, come quella della scuola»: ma guai a toccargli il jobs act e i voucher.

DEL RESTO, PER CAPIRE a chi guarda il gran favorito alla corsa di leader del Pd, basta questo passaggio: «Il mondo va avanti, dieci anni fa cose come Airbnb erano fantascienza, ora invece i nostri albergatori sono sempre più preoccupati». Nemmeno un cenno alle centinaia di migliaia di lavoratori stagionali che prima un contrattino a termine lo avevano. Mentre ora campano, si fa per dire, con i voucher. E oggi tocca ai «tavoli tematici».

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