Cultura

Renato Solmi, l’elegante stile critico che si fa militanza

Renato Solmi, l’elegante stile critico che si fa militanzaL'Angelus Novus di Paul Klee

Addii La scomparsa di Renato Solmi. Traduttore di Benjamin e Adorno, lavorò per anni a Einaudi. Il lungo sodalizio con Fortini e Ranchetti

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 26 marzo 2015

Nella Prefazione a Autobiografia documentaria, il volume che raccoglie i suoi scritti di oltre mezzo secolo (Quodlibet, 2007), così scriveva Renato Solmi: «Ho più che mai l’impressione (…) che questo libro, che è, se così si può dire, un sommario dettagliato della mia vita, sia tutto rivolto verso il passato, e non posso fare a meno di temere che essa sia destinata a prevalere su qualsiasi altra agli occhi degli esponenti della nuova generazione che si battono con tanto ardore e con tanta fermezza sulla linea più avanzata del fronte che separa il passato dal futuro, o, se si preferisce, la salvezza dalla catastrofe». Ma a chi abbia presenti le ottocento e passa pagine del libro, l’impressione dell’autore risulta infondata, anzi fuorviante: perché, al contrario, la lezione dell’Autobiografia di Solmi – scomparso ieri – era ed è quella di un pensatore la cui bussola è stata sempre orientata verso ciò che, nel presente, si schiude a nuovi sviluppi, al di fuori di schemi dottrinari o teleologici. E già il sommario dell’antologia del 2007 dispiegava in piena luce l’amplissimo orizzonte entro cui si è mossa, con straordinaria mobilità intellettuale, la riflessione di Solmi: dai primi lavori su Jaeger, Snell, Cassirer, De Martino degli anni Cinquanta, ai contributi su «Discussioni», la rivista realizzata con Insolera, Amodio, Ranchetti, Fortini, i Guiducci, tra il ’49 e il ’53, agli interventi del redattore Einaudi nel periodo più fecondo della casa editrice, fino a quelli su «Quaderni Piacentini», i pezzi sulla scuola e sui movimenti degli anni ’60/’70, sul pacifismo.

A partire da quei testi si può bene intendere come l’opera di Solmi non sia in alcun modo classificabile come quella di uno «specialista», anche se sul terreno volta a volta affrontato, dalla filosofia in senso stretto alla storia della cultura, dall’antropologia alla sociologia, la storia o la critica letteraria, pochi specialisti – oggi meno che mai – ne sarebbero all’altezza. Il carattere militante, e perciò critico, del pensiero di Solmi, ostile per natura ai dogmi e agli shematismi, è il filo che ne tiene saldamente insieme l’opera, e non meno caratteristico è il suo stile intellettuale, tanto più garbato, raziocinante e talvolta persino cerimonioso nell’argomentare i suoi dissensi, quanto più si rivela radicale e indocile alle pretese della doxa, fosse pure quella della parte politica per cui si è sempre schierato, con preveggente impegno pacifista e altrettanto rigore morale.

Tutto questo, mentre spiega la sua emarginazione rispetto ai sentieri della cultura ufficiale, sia dei partiti sia accademica, pone la sua opera esattamente, per usare le sue parole, «sulla linea più avanzata del fronte che separa il passato dal futuro». Ed è di una tale lezione, nel nostro tempo di filosofi da festival e microspecialisti, segnato dal conformismo (non meno tale per vestirsi di provocazione modaiola o da lezione di disincanto), che c’è bisogno, ora che lui ci ha lasciato. Chi saprà misurarsi con i saggi introduttivi all’opera di Adorno o Benjamin, scritti tra il 1953 ed il ’59, potrà rendersi conto di quali calibrate rimozioni è capace la cultura del nostro paese: quel che è stato rimosso, beninteso, non sono Adorno o Benjamin, che anzi sono stati ampiamente pubblicati e fatti oggetto persino (non senza ambiguità) di culto, ma la prospettiva e lo spessore di storia e cultura entro cui un lettore come Solmi si poneva: quella di una traduzione nel senso più vero (incluso, ovviamente, il più letterale, in cui eccelleva), capace ogni volta di fare i conti con la società che si andava sviluppando nelle tumultuose ondate di quella «modernizzazione», le cui contraddizioni ed i cui limiti si sono poi rivelati tragicamente nel corso degli anni seguenti, e ancora oggi scontiamo.

C’è un testo del 1985 in cui rammentando l’autunno del ’68, Solmi annotava: «Ricordo una mattina, in tram – e non era un’esperienza unica o eccezionale in quei giorni, – gli studenti e le studentesse che andavano a scuola, e che si raccontavano reciprocamente quel che era accaduto nelle rispettive scuole e in quei giorni, con un’immediatezza, una spontaneità, come se tutte le barriere fossero cadute: c’era un’esperienza comune di cui si poteva parlare». Proseguiva poi, con un rilievo consonante con le osservazioni di De Certeau sulla «presa della parola»: «Non è durato molto, forse, nel senso che ben presto si sono aggiunti anche altri elementi che hanno alterato o adulterato la purezza originaria del movimento. Questa purezza si manifestava, fra l’altro nella lingua, nel linguaggio, nel modo di esprimersi e di comunicare degli studenti». Lo ricordiamo così, mentre guarda ai giovani e a quanto è in movimento; e con i versi che gli dedicò Franco Fortini, che portano un’altra data cruciale, quella del 1956 (Ventesimo Congresso): «Una mattina di febbraio/ grigio gentile ghiaccio/ nello sventolio/ delle edicole, balzo e riso,/ delizioso fulmine, le mani gli occhi dell’amico/ convulso, con l’articolo/ mangiato dal vento: Il vento/ – diceva ridendo fra i denti –/ il vento della storia, che ci precipita!»

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