Visioni

Renata Tebaldi, primadonna all’antica vissuta in era moderna

Renata Tebaldi, primadonna all’antica vissuta in era modernaRenata Tebaldi al teatro Manzoni di Milano, 1957 – foto di Nadege Soule/ullstein bild via Getty Images)

Sguardi Vent’anni fa la scomparsa della celebre soprano, dalla Scala ai «sold out» newyorchesi al Met

Pubblicato circa un mese faEdizione del 10 settembre 2024

Nel 1997 Renata Tebaldi dopo vent’anni di assenza tornò a New York per presentare la versione inglese della sua biografia. Oltre duemila persone si misero in fila davanti al bookshop del Metropolitan Opera per un autografo e per festeggiare il soprano che al Met aveva cantato dal 1955 al 1973. Tanti erano emozionati, qualcuno in lacrime. Non tutti erano anziani, c’erano anche giovani che conoscevano la voce della Tebaldi solo attraverso i dischi. Ritirata dalle scene nel 1976 e ormai stabilita a Milano, Renata Tebaldi era commossa e incredula. Forse è stato questo il suo segreto: aver creduto di essere null’altro che un’artista seria e disciplinata, nonostante la carriera formidabile, i mezzi vocali straordinari per qualità, uniformità e volume e la tecnica solida e sorvegliata.
Eppure non sembrava essere nata per il palcoscenico Renata Ersilia Clotilde, nata a Pesaro il 1 febbraio 1922, ma cresciuta con la sola madre a Langhirano, in provincia di Parma. La poleomelite che da bambina le aveva leggermente segnato una gamba, l’altezza che l’impacciava («il più grande soprano del mondo sono io – scherzava – sono quasi un metro e ottanta!») il temperamento serio e gli studi pianistici sembravano prefigurare una carriera di solista o insegnante. Non era destino: Renata cantava sempre in casa con una voce bella al punto che un’amica materna alla soglia dei diciassette anni la trascinò a un’audizione al conservatorio di Parma.
Fu presa ma la svolta arrivò grazie all’incontro a Pesaro con il soprano Carmen Melis, primadonna che aveva sacrificato la voce anzitempo cantando troppo repertorio verista e che era determinata a non far ripetere l’errore alle sue allieve. Nonostante la guerra il debutto arriva nella breve ma delicata parte di Elena nel Mefistofele di Boito al Teatro Sociale di Rovigo nel 1944, ottant’anni fa. La ragazza, capelli sciolti sulle spalle e imponente, non passa inosservata. Finita la guerra i debutti a Parma, Mimì nella Bohème e Maddalena in Andrea Chenier, e poi in Otello a Trieste e a Genova tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946 attirano l’attenzione della Scala e le procurano la famosa audizione a Milano con Arturo Toscanini. L’anziano maestro, rientrato in Italia per celebrare il ritorno alla libertà, la vuole nel concerto che l’11 maggio 1946 riapre la Scala dopo i bombardamenti: i due interventi, nella Preghiera del Mosé di Rossini e nel Te Deum di Verdi – quella «voce dell’angelo» da cui origina la leggenda inventata ma perfetta per le qualità dell’esordiente Tebaldi – bastarono per segnarne il lancio. Sul palcoscenico scaligero approda nel 1947 come Eva nei Maestri cantori di Wagner , poi come Mimì nella Bohème ma intanto le porte dei teatri italiani si schiudono e Renata brilla come Desdemona, Tosca, Maddalena di Coigny, Elsa nel Lohengrin: l’ambito di elezione è quello del soprano lirico spinto, che amplierà con pochi ruoli drammatici solo molto più avanti.

IN QUEI PRIMI ANNI la voce della Tebaldi – testimoniata dal disco ma anche da fortunosi live e dalle registrazioni radiofoniche Rai – è nel pieno fulgore: ampia, morbida, omogenea, carica di pathos e languore, particolarmente adatta alle parti liriche e malinconiche più che a quelle drammatiche o belcantistiche. Gli attacchi sono immacolati e la linea di canto franca e pura anche nei pianissimi, caratteristica celebre di una voce che solo negli estremi acuti accenna a qualche tensione. Affronta molte parti verdiane, da Giovanna d’Arco a Aida – nel 1953 presta la voce alla voluttuosa etiope cinematografica di Sophia Loren – dalla amata Desdemona a Leonora nella Forza del destino. Insieme a Tosca, Violetta è uno dei pochi personaggi che condivide con Maria Callas, a sua volta in piena ascesa. La loro rivalità, nata da un paio di episodi – il più noto a Rio de Janeiro, quando in concerto la Tebaldi cantò due bis nonostante il mutuo patto di non concederne – e alimentata dalla stampa, esplose alla Scala.

Renata Tebaldi a New York, 1970 foto di Santi Visalli/Getty Images

SE LA TEBALDI regna al San Carlo di Napoli e nel 1953 ancora può assicurarsi il 7 dicembre con La Wally di Catalani, ma tutti gli occhi sono già puntati sulla Medea che tre giorni dopo vede brillare la cantante greco-americana diretta da Leonard Bernstein. Nel 1950 Renata Tebaldi aveva affrontato la prima infinita trasvolata per San Francisco per esordire in Aida, attraendo l’interesse del direttore del Met, Rudolf Bing. Con acume il soprano attese il momento propizio per entrare al Met dalla porta principale, firmando nel 1955 un contratto che la allontanò dalla Scala della Callas e di Visconti ma la trasformò in una stella sulle scene newyorkesi, dove cantò oltre 270 recite in vent’anni. Qui debutterà in Madama Butterly, Fanciulla del West e Gioconda ma il suo repertorio resterà incardinato sulle stesse parti da lirico-spinto, inclusa Adriana Lecouvreur, imposta a Bing e rivelatasi un formidabile successo al botteghino. «Miss Sold Out» o «Fossette d’acciaio», come la chiamava Bing per l’irremovibilità addolcita dal sorriso, si trasforma via via in una diva altera e serena, dalla capigliatura fiammante, vestita dalle tuniche di Hanae Mori e George Stavropoulos. La voce non conosce veri appannamenti, nonostante il lavoro intenso e i viaggi che la riportano più di frequente in Italia a fine anni Sessanta, salvo una momentanea crisi nel 1962, anche causata dalla fine della relazione con il direttore Arturo Basile, la sola nota in una vita privata protetta con discrezione assoluta. Prima che la durezza negli acuti, il ricorso alle note di petto e il rarefarsi dei pianissimi portino a un vero declino la Tebaldi si ritira dal Met con un’ultima recita di Otello.

NEL 1976 con un recital scaligero dedicato ai terremotati del Friuli chiude senza clamore la carriera. Continua a apparire spesso in pubblico e in televisione e muore a San Marino, dove un concorso di canto porta il suo nome, nel 2004. Una parabola sensazionale iniziata ancora negli anni ’40 a fianco a voci d’anteguerra come Francesco Merli e Giacomo Lauri Volpi e poi oltre a Mario Del Monaco, partner ideale di tante incisioni, proseguì accanto a Giuseppe Di Stefano, Jussi Björling, Carlo Bergonzi, Richard Tucker, Franco Corelli e ancora Placido Domingo, che debuttò con lei nel 1968 al Met in Adriana Lecouvreur e Luciano Pavarotti, con cui fece in tempo a incidere Un ballo in maschera di Verdi. Se oggi forse il mito della Tebaldi ci appare distante si deve anche all’incapacità del disco di restituire la torrenziale pienezza del volume e la ricchezza degli armonici di una voce che elettrizzava il pubblico in teatro.
Più che dal paragone insensato con la Callas l’immagine della Tebaldi nel tempo è stata insidiata dal lascito di cantanti italiane che con voce meno doviziosa ne hanno seguito la scia americana con versatilità più moderna, legata alle ragioni della recitazione oltre che del solo canto, specie Mirella Freni e Renata Scotto. Resta suprema la magia di una voce che negli anni d’oro e negli incontri con direttori di prim’ordine, da Karajan a Serafin a Bartoletti ha siglato passaggi ineludibili della storia del canto del XX secolo. La Tebaldi è stata forse l’ultima, grande primadonna all’antica vissuta in era moderna.

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