Remo Bianco nello studio mentre lavora ai ferri tra i suoi “Collages”, 1960 circa

In un ritratto fotografico scattato da Ugo Mulas nel 1965 si vede un elegante Remo Bianco (1922-’88) puntare il dito verso l’osservatore. Quella foto era stata usata a scopi promozionali, come se l’artista, novello zio Sam, intimasse a visitare la sua mostra presso la milanese galleria del Naviglio. Era l’immagine più adatta per la copertina del suo La dittatura della fantasia Collage autobiografico, il dattiloscritto inedito pubblicato da Johan & Levi nel centenario della nascita (pp. 230, euro 24,00). Non è una vera e propria autobiografia, ma una narrazione frammentaria in cui è facile perdersi senza appoggiarsi al puntuale e appassionato profilo introduttivo tracciato da Sharon Hecker, tessuto intrecciando fonti d’archivio e testimonianze orali.

Più che parlare di sé per erigere il monumento alla propria esperienza biografica, infatti, Bianco aveva usato la pagina scritta come occasione di ulteriore estensione dell’attività creativa: annota infatti che l’idea di fare un libro «a piccole inquadrature, senza un nesso, impostato in modo casuale e continuo per poter riallacciare in ogni momento il passato al presente e al futuro, è piaciuta ai miei amici e l’editore che dovrebbe realizzare questo libro mi ha incoraggiato a proseguire in questo senso».

Quando scrisse queste poche righe, intorno al 1982, Bianco aveva compiuto sessant’anni, e ragioni di salute lo avevano costretto a un prolungato periodo di convalescenza ospedaliera: fu proprio questa circostanza, come sentisse l’approssimarsi della fine, a spingerlo a un’operazione di sintesi di questo genere. Non era nemmeno l’unico, fra i suoi coetanei artisti, ad aver pensato che fosse giunto il momento di fare il punto: Autorotella, a cui lo accomuna il piglio libertino, fu pubblicato da Mimmo Rotella nel 1972; Automitobiografia, col suo insolito racconto à rebours (adottato anche da Bianco), verrà licenziato da Enrico Baj nel 1983.

Bianco, però, aveva in mente un libro come «opera aperta», a cui si potesse mettere mano aggiungendo all’infinto frammenti senza mai giungere a una conclusione definitiva. Per questo, forse, nelle ultime pagine del testo si trova il progetto di un futuro libro autobiografico, come se quello letto fin lì fosse il brogliaccio di un racconto ancora da scrivere. Eppure Bianco l’aveva fatto trascrivere e consegnare per la pubblicazione a Virgilio Gianni, suo mecenate e collezionista, con la precisa idea di fare di un volume a stampa.
Una narrazione lineare di fatti e avvenimenti, infatti, non sembra interessargli, mentre uno zibaldone di pensieri gli consentiva una libertà associativa altrimenti di difficile restituzione. Perciò non dev’essergli parso quasi mai necessario apporre una data a questi testi, tanto che i pochi tentativi di datazione possono basarsi solo su riferimenti interni al racconto. In virtù di questo, forse, la scrittura segue un flusso di coscienza continuo e ritornante. Di tanto in tanto si sofferma, persino raccontando più volte gli stessi aneddoti da punti di vista diversi e con leggere varianti, su alcune figure cruciali del suo percorso, dalla «sincerità animalesca» di Beniamino Joppolo al ricordo commosso di Filippo De Pisis, forse l’incontro umanamente più importante della sua vita.

«De Pisis mi aiutò molto», ricorda l’artista, «non è mai stato un insegnante per me, ma un maestro. Infatti, era più prodigo che generoso», e non fu la pittura il vero punto in comune fra loro, quanto un atteggiamento nei confronti della vita, e una frequentazione che non si interromperà nemmeno negli anni di ricovero di De Pisis a Brugherio, fuori Milano. Era stato il «marchesino pittore» a presentarlo a Carlo Cardazzo, con cui si sarebbe stabilito un lungo e felice sodalizio, proseguito poi con suo fratello Renato. «Dire che De Pisis era una sorgente o un fuoco d’artificio», prosegue, «può sembrare banale, infatti non trovo altre parole, ma era lui la “cosa” da vedere e sentire».

Il più delle volte, però, è un ragionamento che procede per associazioni fantastiche a mandare avanti il discorso di frammento in frammento, come una schidionata di pensieri e narrazioni che alterna squarci di memoria e idee di possibili opere d’arte, si tratti di oggetti o di performance, o addirittura vere e proprie mostre basate su trovate ironiche e spiazzanti, divenendo a loro volta opere d’arte temporanee. «Continuo a essere ossessionato dalle idee di mostre, piccole performance ecc…», afferma, «tutto ciò che vedo, tutto ciò che sento, per me si trasformerebbe in pittura scultura arte figurativa insomma». Tutto, insomma, può diventare arte o accendere l’immaginazione, fra sollecitazioni visive e associazioni verbali da tradurre poi in immagine.

«Io dovrei essere un dittatore», scrive Bianco, «sarei un uomo terribile, se potessi metterei tutti sotto il giogo della mia fantasia e creatività perché ho continuamente bisogno dell’aiuto di tutti (…). Se fossi un dittatore, la mia sarebbe una ben strana guerra di conquista, perché tutto lo scopo consisterebbe in una costante documentazione figurativa». Il personaggio che emerge è infatti istrionico e sorprendente. Non mancano racconti sull’evoluzione della sua pittura, ma non sono centrali. Qui, piuttosto, Bianco è l’autore di un’inserzione bizzarra come «Studio d’arte astratta cerca collaboratrice disposta a viaggiare – perfetta conoscenza inglese – possibilmente laureata», che, dopo una serie di colloqui da commedia all’italiana, si trova a partire per la Libia con Vanda, una delle ragazze che si erano presentate. In un altro brano immagina invece una «mostra pranzo», in cui «sui tavoli ci saranno le opere trasformate in cibi che dovranno essere consumati (…). E ogni tavola rappresenterà un umore: rosa viola nero etc. bisognerà quindi trovare il modo di modificare il colore degli ingredienti, usando delle sostanze innocue». Oppure, dopo aver letto un libro su Michelangelo, la sua fantasia lo spinge all’ipotesi di «costruire una scultura che sia soltanto basata sulla tensione: una scultura invisibile, formata dalla concentrazione della nostra volontà che dal nostro corpo, passando sull’oggetto, dia a questa scultura tensiva e invisibile un volume gigantesco». Altrettanto, le storie dei Santi (San Francesco su tutti) offrivano spunti di provocatorie invenzioni a sfondo erotico.

Bianco sapeva benissimo che molte di queste erano idee irrealizzabili, anche se nella sua vita non erano mancati episodi eccentrici, dal tentativo di sostituire il campanile di San Marco, a Venezia, con una sua gigantesca pagoda (1972), alla comica disavventura vissuta con Raymond Hainis, a Parigi, nel tentativo di estorcere una registrazione della sua voce da includere in un suo Quadro parlante. La scrittura, dunque, serviva come estensione immaginativa: «come una volta l’artista illustrava un pensiero, così oggi può illustrare un sillogismo, non so, un gioco di parole». La stessa lettura di libri di ogni genere era finalizzata a identificare frasi che, isolate, potevano diventare idee da sviluppare in pittura o in scultura. A quel punto, nessun freno poteva arginare la sua fantasia combinatoria, ricorrendo a ipotetici manifesti di aleatori movimenti d’avanguardia: Arte psicoterapica; Arte intenzionale o progettuale; Arte chimica; Arte elementare. La sola cosa che non preoccupa Bianco, in fondo, è il racconto del suo itinerario creativo, rapsodicamente evocato: era quel catalogo di gesti incompiuti, verbalmente risolti, a essere di per sé un’opera d’arte.