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Rem Koolhaas, architettura e ambiguità nell’«oltre» nicciano

L’architetto olandese Rem Koolhaas sul terrazzo della sede OMA di RotterdamL’architetto olandese Rem Koolhaas sul terrazzo della sede OMA di Rotterdam

La città del futuro Una proposta «solitaria» che fa tabula rasa del Moderno e del Postmoderno in nome della quantità e del... profitto: «Rem Koolhaas» di Marco Biraghi (Einaudi)

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 14 luglio 2024

Che Rem Koolhaas possa essere definito il più nicciano degli architetti contemporanei è quanto sostiene Marco Biraghi nel suo ultimo saggio dal sottotitolo L’architettura al di là del bene e del male (Einaudi, «PBE Mappe», pp. 226, € 22,00). Molteplici i pretesti per giustificare questa affinità, che appare riflessa nello stesso stile apodittico dei testi dell’architetto olandese. Prima di tutto, però, nei dodici capitoli che compongono il volume e nelle schede che li accompagnano c’è la ricostruzione accurata delle sue multiformi attività ruotanti attorno al suo studio OMA (fondato a Londra nel 1975 e dal 1978 a Rotterdam) e alla sua «costola culturale» AMO, think tank creata nel 1999 in connessione con le quattro sedi di OMA a Rotterdam, New York, Hong Kong, Brisbane.

Il confronto, quindi, tra la filosofia di Nietzsche e la teoria di Koolhass sulla città e l’architettura si dimostra un intelligente espediente dell’autore per riscontrare analogie, certamente singolari, ma che sono consueti criteri storiografici seguiti per analizzare cronologicamente i progetti e le ricerche mettendone bene in risalto i nodi problematici.

Era prevedibile che Biraghi si sarebbe interessato più approfonditamente di Koolhaas, essendosi già confrontato con le sue posizioni nei precedenti libri, tutti per i tipi Einaudi: Storia dell’architettura moderna contemporanea (2008) e L’architetto intellettuale (2019); in Architettura del Novecento (2013), il dizionario curato cinsieme ad Alberto Ferlenga, Koolhaas è citato lo stesso numero di volte di Gropius, Le Corbusier o Wright.

La sua «potenza» obbliga, quindi, a considerarlo un Übermensch? Per certi versi la lettura del saggio orienta verso una risposta affermativa, nell’accezione, certo, non della superiorità, quanto invece, secondo la lettura di Vattimo (via Heidegger), della ulteriorità.

Così inteso, Koolhaas è letto nel suo «oltrepassare» ogni eredità culturale, intenzionato com’è, a partire dalla metà degli anni settanta, a porsi distante dalla tradizione del Movimento Moderno e dalle sue aporie, per svuotarne dall’interno i contenuti etici: come l’uomo nicciano, sarebbe un «cavo al di sopra dell’abisso», volto a oltrepassare gli ideali universalistici per realizzare quell’evoluzione culturale che grazie alla tecnica può raggiungere il possibile.

Come lo stesso Koolhaas ha teorizzato, per avventurarsi come un acrobata in questo percorso occorre «abbandonare la via “moralistica” battuta per qualche decennio dall’ideologia moderna (…) e incamminarsi su un sentiero solitario, all’apparenza assai poco promettente», ma che sul piano mediatico e imprenditoriale si è rilevato molto conveniente.

Il viaggio «sull’altra via» si sviluppa per tappe distinte che il saggio coglie nel loro ordito come altrettanti punti di un procedere in transizione (Übergang), ma, vista la realtà del presente, verso il tramonto (Ütergang), come agognava il Nietzsche dello Zarathustra. La prima tappa è la pubblicazione del libro Delirious New York (1978), nel quale fanno il loro ingresso i concetti di Congestione Totale, di Manhattanismo, di Iper-densità e di Grattacielo, con i quali la metropoli statunitense è letta da Koolhaas come una «macchina desiderante» nella quale si esprime la sola ideologia urbanistica meritevole per lui di considerazioni. Le successive riguardano il trasferimento in Europa di quelle nozioni fondamentali scoperte negli States, e che fino alla metà degli anni novanta troviamo nei progetti del concorso del Parc de la Villette a Parigi (1982), del Kunsthal di Rotterdam (1993), di Euralille a Lilla (1989-’94), solo per citarne alcuni.

La strategia progettuale adottata è sempre quella di sostanziare di «risorse teoriche» la produzione architettonica. Senza soffermarsi troppo sulle destinazioni di un edificio, la prassi seguita da Koolhaas è di costruire dispositivi referenziati sul piano dell’investigazione intellettuale. Uno di questi è la «pianta tipo», recuperata nella realtà del Grattacielo, «marchio della modernità» e congegno insuperabile nel soddisfare il «programma del business» perché neutrale e astratto, in altre parole disponibile per qualsiasi manipolazione come accade negli edifici per uffici. Altrettanto avviene con l’«edificio-massa cubica» che negli esempi del concorso per la Trés Grande Bibliothéque di Parigi (1989) o del Zentrum fur Kultur und Medien a Karlsruhe (1989-’92) si configura come un «grattacielo iper-compresso» che al suo interno addensa una quantità di volume disponibile per qualsiasi funzione.

Gli esempi di sopra rinviano al capitolo centrale del saggio di Biraghi: Il Regno della Quantità, in altre parole la presenza che la massa critica dell’edificio assume fino a trasformarsi in «Automonumento». Un concetto che trova le sue migliori applicazioni in Asia (Singapore, Pearl River Delta) e una più adeguata sistemazione critica nel saggio Bigness, or the Problem of Large (1994), nel quale il Grande Edificio può arrivare a coincidere con la scala della città e rappresentare il trionfo del «puramente quantitativo», chiudendo così con ogni ipotesi postmodernista di ricostruzione «artistica» della città. Non è un caso, come ha fatto rilevare Biraghi, che quando Koolhaas decide di consegnare la propria opera completa, S, M, L, XL (The Monacelli Press, 1995), la ordini secondo criteri dimensionali.

Accanto alla nozione di Bigness si colloca quella della Città Generica, frutto dei processi dominanti della globalizzazione e dell’omologazione che causano la perdita d’identità delle città. Una perdita che per Koolhaas non è un danno. Di quale sostanza, però, poi la realtà urbana si debba plasmare perché sia pronta «all’espansione, all’interpretazione, al rinnovamento» una volta consumata l’identità, Koolhaas non lo spiega: effetti del troppo «generico» o segni del tramonto nicciano?

Il periodo che dal 2000 (Premio Pritzker) arriva a oggi è segnato da una tale mole di progetti architettonici, editoriali, espositivi, ecc., da costituire un «inestricabile intreccio» dove s’impongono architetture «senza qualità» e una sfilza di grattacieli definiti «un concentrato della vanity fair contemporanea».
Dopo l’originalità della «meta-forma» della China Central Television Headquarters a Pechino (2002-’12), un grattacielo ripiegato su se stesso, e il gigantismo laconico del Dubai Renaissance a Dubai (2006), Koolhaas/OMA ha dimostrato di essere più che un «Diabolus Maximus», come scrive Biraghi, un Pontifex Maximum, officiante il cerimoniale della professione, nonostante egli pensi che «l’architettura sia scomparsa», che è come dichiarare che «Morti son tutti gli dèi» e contemporaneamente continuare a invocarli.

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