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Reinventare le immagini nella geografia contemporanea

Reinventare le immagini nella geografia contemporaneaUna scena da «L’île» di Damien Manivel

Festival Si è chiuso il FidMarseille, un’edizione attraversata dalla realtà e in cerca di un cinema indipendente. «Background» di Khaled Abdulwahed vince il concorso internazionale

Pubblicato più di un anno faEdizione del 11 luglio 2023

«Il 90% delle persone ammazzate dalla polizia non è bianco» grida un muro nel cuore di Belsunce. Marsiglia, i segni delle proteste esplose dopo l’omicidio di Nahel, ucciso da un poliziotto, attraversano la metropoli francese; i muri, le vetrine rotte di alberghi, negozi, persino qualche barbiere tra le stradine strette laddove ancora i quartieri popolari sconfinano nella gentrificazione, e molte case sono a rischio di essere anch’esse inghiottite insieme ai loro abitanti dai piani di «riqualificazione» urbana. Venerdì scorso la marcia bianca, divenuta poi un presidio per Mohamed B., il ragazzo ucciso da un colpo di flash ball, i micidiali proiettili di gomma sparati dagli LBD di cui i Crs abusano ha messo la città sotto controllo: blindati, pattuglie, elicotteri e non solo nei Quartieri nord, la periferia divisa tra Cité e casette basse, una città nella città tagliata fuori dal resto per mancanza di trasporti pubblici – pochissimi gli autobus che non coprono comunque le zone più lontane e che nei giorni degli scontri erano stati sospesi.

ADESSO tutto è calmo. Marsiglia nel sole di luglio è affollata dai vacanzieri – «Mai così tanto turismo» dicono in hotel – polizia e militari presidiano a piccoli gruppi le zone del centro, figure di donne giovani e meno giovani scivolano sui marciapiedi quasi tutte velate, molte col chador. «Le mie amiche hanno scelto di velarsi, è successo così un po’ per volta, adesso per me è strano, continuiamo a vederci però mi sento un po’ esclusa, non voglio cedere al velo anche non è facile» ci dice una ragazza. La sua famiglia è di origini algerine, lei è nata in Francia come i suoi genitori che non sono particolarmente religiosi. Il punto, spiega, è che scegliere questa strada è diventato un modo per dichiarare la propria identità contro uno stato come quello francese che non ti considera un suo cittadino. «Diventa quasi una dichiarazione di lotta, e con le violenze che aumentano ogni giorno così come la separazione sociale non può che crescere. Ora è stato Nahel, poi l’altro ragazzo qui, ma accadrà senz’altro di nuovo».

QUESTA realtà è entrata anche tra le sale del FidMarseille, il festival internazionale del film di Marsiglia che si è chiuso domenica. La sera dell’apertura una ragazza è salita discretamente sul palco annunciando ciò che era accaduto, la morte di Mohamed B. colpito sul suo motorino mentre stava tornando a casa. E questa realtà, il nostro tempo, i suoi conflitti, è il riferimento per gli artisti e le artiste invitate al festival in questi giorni che rispetto al passato si è presentato per il secondo anno a «direzione collettiva» – pure se il colofon indica che la direzione è di Tsveta Dobreva e il coordinamento artistico del critico e storico Cyril Neyrat – con un cartellone ridotto per numero di film, e diverse altre rinunce come quella del catalogo dovute a un complessivo taglio di budget. Senz’altro l’esperimento che hanno avviato avrà bisogno di tempo per trovare un suo equilibrio specie dopo la lunga direzione precedente di Jean-Pierre Rehm, la cui personalità assai decisa si era intrecciata con altrettanta decisione al festival. E per affermare una sua cifra, compresa quella «cura» e dell’attenzione a creare rapporti e comunità tra i diversi ospiti che dovrebbe essere il patrimonio di festival più indipendenti come è il Fid.

NEL PRESENTE di migrazioni e politiche dell’esclusione fra i confini sempre meno ospitali dell’Europa ci porta il film che ha vinto il concorso internazionale, Background, realizzato da Khaled Abdulwahed, filmmaker e artista visivo siriano che vive in Germania dove è arrivato nel 2015 con un visto – era invitato a un festival – per rimanervi da «clandestino» nei campi con gli altri migranti come lui in attesa di essere accettati. Background è una conversazione continuamente interrotta tra il regista e sui padre rimasto a Aleppo; la comunicazione è difficile, la linea telefonica salta spesso, in lontananza l’eco delle bombe che non hanno mai smesso di cadere anche quando dicevano che la guerra era finita sulla città che il terremoto ha finito di devastare.
Di cosa parlano padre e figlio? Di una memoria non scritta del primo che il secondo prova a rintracciare nei luoghi in cui abita ora. Anche il padre infatti era stato in Germania, studente di ingegneria invitato probabilmente all’interno degli scambi di studio tra «paesi amici» quali erano negli anni sessanta la Siria e la Germania socialista dell’est. Ha vissuto a Lipsia, dove Khaled è adesso con la sua famiglia, e a Dresda, per arrivarci ha viaggiato tra Turchia, Cecoslovacchia, Austria – «sempre con un visto» dice la sua voce che è incerta, sofferente, spesso soffocata dalla tosse. Lavorando su delle vecchie fotografie il figlio-regista prova a rimettere quel padre giovane, bello e pieno di aspettative per il futuro al centro di una geografia che oggi lo esclude, di un Paese che ignora i suoi appelli per farlo venire lì, per salvarlo da quella distruzione quotidiana. Che ci racconta dunque Background? Un’assenza che è nei corpi smaterializzati dalla distanza, nelle trasformazioni della storia, nell’impossibile incontro affidato unicamente alle voci in un flusso che è quello dei ricordi. E insieme dichiara un dispositivo di narrazione che mette in gioco il ruolo del regista, la sua ricerca personale e politica tra le tracce rimaste del padre, la sua manipolazione – sempre esplicitata – di paesaggi e vissuti la cui realtà nel presente è stata cancellata per sempre,

«L’idea che avevamo era quella di girare Nouveau Monde! dal futuro, dopo la fine. Molto dopo Auschwitz, Hiroshima, c’è stata una gigantesca esplosione. Il mondo ricomincia, il cinema pure» dicono sul sito del festival Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval. Il loro film, Noveau Monde! nel concorso francese, mescola Jean Epstein e Hannah Arendt, pensa a Godard e a Straub, lavora sui testi di Leonardo da Vinci e sulle parole di Patti Smith. è un omaggio tenerissimo a François Tanguy, interroga le immagini e il senso del filmare. Sull’isola di Ouessant dove Epstein si era ritirato in crisi dopo La caduta della casa Usher (1928), il loro sguardo cattura il blu del cielo, le rocce, il mare, i primi piani degli animali in un paesaggio che si fa luce e immagine in movimento, riflessione sul senso delle immagini oggi in un’epoca di bulimia che ne impedisce la consapevolezza nella loro continua moltiplicazione, e sulla distruzione del pianeta a opera dell’uomo confermando l’ostinata ricerca dei registi di un fare cinema nel corpo al corpo col proprio tempo.

È INVECE in Bretagna che Damien Manivel ha ambientato L’île (nel concorso francese) un racconto di formazione che sperimenta la propria messinscena su più registri. Rosa deve lasciare i suoi amici e i luoghi in cui è cresciuta per andare a Montreal a studiare danza. La notte prima della sua partenza il gruppo fa festa, una lunga giornata fino all’alba sulla spiaggia, in quello che è il loro rifugio: l’isola – che dà il titolo al film – una sorta di piccolo promontorio roccioso.
Rosa beve, fuma, ride, nuota, fa l’amore, piange, litiga. Le parole vengono riproposte in una sorta di prova in un teatro dove i ragazzi mimano ciò che accadrà poi, ciò che noi vedremo producendo così un effetto di straniamento e insieme di maggiore forza narrativa. Manivel aderisce ai corpi, ne cattura la fisicità, passa dalle «prove» alla messinscena filmando i gesti, il movimento, le parole – la protagonista Rosa è magnifica. Questo procedere libero e solo in apparenza casuale, che ha il respiro di una notte di addii e nuovi inizi si fa racconto di emozioni caotiche e ribelli, di un assoluto della adolescenza, di un tempo che sembra infinito con la scommessa dell’immaginazione.

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