«Reimmaginare è rivoluzionario»
Intervista Intervista a Rob Hopkins, fondatore del Movimento per la Transizione e autore del libro «Immagina se». La tesi è che per vincere la crisi climatica bisogna concepire l’idea di un nuovo presente e futuro, e spegnere internet
Intervista Intervista a Rob Hopkins, fondatore del Movimento per la Transizione e autore del libro «Immagina se». La tesi è che per vincere la crisi climatica bisogna concepire l’idea di un nuovo presente e futuro, e spegnere internet
«I cambiamenti climatici sono un fallimento dell’immaginazione». Lo ripete più volte Rob Hopkins nel corso dell’intervista, al punto che alla fine sembra del tutto ovvio. Tredici anni fa Hopkins ha fondato a Totnes, nel Regno Unito, la prima Transition Town: nasceva allora il Movimento della Transizione, che in breve si sarebbe trasformato in un network globale, con lo scopo di trasformare profondamente le società umane per renderle più sostenibili, eque e felici.
Ha un’aria scanzonata, rara in chi si occupa di cambiamenti climatici e crisi ecologica, e un approccio al cambiamento pragmatico – «britannico» – che non si perde in fronzoli ideologici ma non tralascia niente di importante. Ha pubblicato un nuovo libro, tradotto da Chiarelettere, dal titolo Immagina se, in cui attraverso storie concrete rivendica il ruolo centrale dell’immaginazione nella soluzione ai problemi ambientali.
I cambiamenti climatici, la crisi ecologica sono argomenti tecnici, da scienziati. Cosa c’entrano con l’immaginazione?
Questa cosa all’inizio ha sorpreso anche me. Quando ho iniziato a leggere i saggi di Naomi Klein, o Bill McKibben, questa espressione continuava a tornare: I cambiamenti climatici sono un fallimento dell’immaginazione. Dunque mi sono chiesto perché.
E cosa ha scoperto?
Il collegamento sta nel fatto che la crisi climatica ci richiede di reimmaginare profondamente tutto. Non si tratta solo di scegliere di comprare cibo bio o mettere qualche pannello solare sui tetti. Dobbiamo ripensare come funzionano i nostri sistemi alimentari, energetici, educativi. Come potrebbe funzionare la filiera alimentare della mia città fra dieci anni se tagliassimo le emissioni del 70%?, e Come potremmo riorganizzare la mobilità in un mondo indipendente dal petrolio?, e Come potremo far sì che le persone si sentano davvero coinvolte dal processo politico e non si limitino ad andare a votare ogni quattro anni?. Sono domande le cui risposte richiedono un enorme sforzo di immaginazione.
Non sembra semplice.
Non lo è. Anche perché diverse ricerche sostengono che il nostro muscolo dell’immaginazione si sta rimpicciolendo. L’immaginazione e il Q.I. sono cresciuti insieme fino al 1990, poi mentre il Q.I. ha continuato a crescere la seconda ha iniziato a calare. Ciò sembra avvenire per varie ragioni: passiamo troppo tempo di fronte a degli schermi e troppo poco nella natura; soffriamo di ansia, solitudine e stress, tutte cose che danneggiano l’immaginazione, al pari della diseguaglianza sociale. Abbiamo creato una sorte di tempesta perfetta, in cui l’immaginazione si sta riducendo proprio nel momento in cui ne avremmo più bisogno.
Eppure questa è la società dell’innovazione, della Silicon Valley, della finanza creativa, del marketing. In alcuni settori l’immaginazione non manca.
Facciamo confusione fra innovazione e immaginazione. Mi piace spiegare questa cosa parlando della pizza. Si può fare innovazione con la pizza: si possono provare farine differenti, cambiare formaggi o farciture. Ma non avrebbe senso reimmaginare la pizza, perché è fantastica così com’è. Le economie neoliberali basate sulla crescita non sono per niente come la pizza. Quando hai un sistema che ci sta spingendo giù da un dirupo l’innovazione non è poi così interessante. Sarebbe come cambiare il colore delle sedie sul Titanic. Dobbiamo mettere tutta la nostra attenzione sul reimmaginare il sistema dalle fondamenta.
Più immaginazione, meno innovazione. Eppure stiamo delegando sempre più potere agli algoritmi dell’Intelligenza artificiale e a piattaforme come Facebook.
C’è un capitolo intero nel libro sull’impatto delle tecnologie sulla nostra immaginazione. Molti esperti ormai ritengono che se guardiamo a Internet come un esperimento di 20 anni, se analizziamo i dati relativi all’impatto che Internet ha avuto sui livelli dell’attenzione, sui livelli d’ansia, sul grado di sorveglianza a cui siamo soggetti, sul grado di polarizzazione della società, sul modo in cui le grandi aziende come Facebook comprendono la nostra psicologia meglio di come noi stessi comprendiamo la nostra psicologia… be’, possiamo concludere che è stato un esperimento fallimentare e che forse dovremmo semplicemente spegnerlo.
Dici sul serio?
Sì, ed ero molto sorpreso quando ho letto queste affermazioni, perché tendiamo a pensare che Internet è stata un’invenzione grandiosa. Ma è così? Io non ricordo un simile grado di polarizzazione sociale. Persino su un tema come il cambiamento climatico, che è scienza, tendiamo a dividerci in base alla visione politica. Recentemente l’Ad di Netflix ha affermato che il loro principale competitor è il sonno delle persone. Come possiamo diventare una popolazione impegnata e ricca d’immaginazione quando siamo circondati da tecnologie che mirano a distrarci tutto il tempo?
Mi ha colpito il fatto che citi molti esempi di immaginazione collettiva, mentre spesso tendiamo ad associare l’immaginazione a un esercizio solitario. Abbiamo un’idea distorta dell’immaginazione?
Ci sono livelli diversi di immaginazione. C’è il livello individuale, che è importantissimo sviluppare al meglio. Ma c’è anche un livello collettivo, di cui ho avuto molta esperienza principalmente perché sono stato coinvolto nel Movimento della Transizione negli ultimi 12-13 anni. È quel tipo di immaginazione che viene coinvolta quando metti più persone all’interno dello stesso spazio, offri una buona facilitazione e metti dei limiti attorno alla conversazione. A quel punto entra in gioco l’immaginazione collettiva, iniziamo a costruire sulle idee degli altri, creiamo qualcosa di molto più grande di ciò che avremmo potuto immaginare ognuno per conto suo. È uno strumento potentissimo quando si tratta di immaginare una società diversa.
Spieghi come l’immagine che abbiamo del futuro condizioni il futuro stesso.
Già. Quando Neil Armstrong andò sulla luna non fu una sua idea, né fu un’idea di JFK. Eravamo andati sulla luna già da decenni nelle canzoni, nei film e nei romanzi. Avevamo creato un’idea collettiva di andare sulla luna che rese inevitabile andarci veramente. È evidente quanto le storie che ci raccontiamo siano davvero importanti.
Purtroppo però abbiamo una tendenza, o un’attrazione, per raccontare storie in cui tutto va male. Come mai?
Penso che sia perché creano storie più eccitanti, che attivano archetipi come quello del viaggio dell’eroe. Il problema è che se tutto quello che facciamo è raccontarci distopie, alla fine queste tendono ad autoavverarsi, perché ci mancano i mattoni di base per immaginare qualcosa di diverso. Ed ecco i cambiamenti climatici, le tecnologie che ci controllano, e così via. Ciò di cui abbiamo bisogno adesso sono storie di come le persone affrontano collettivamente la minaccia dei cambiamenti climatici, rispondono ad essa con compassione, immaginazione, gentilezza e senso di comunità.
Parlando di cambiare l’immaginario, non si può evitare di parlare di scuola.
C’è un capitolo dedicato alla scuola, su come sarebbe il nostro sistema educativo se la sua intenzione principale fosse sviluppare le potenzialità immaginative dei più giovani, in cui racconto storie di scuole e modelli educativi diversi, che stimolano l’immaginazione invece di castrarla.
L’attualità però ci racconta una situazione un po’ diversa, dove le scuole sono fra le prime vittime della pandemia…
Stiamo perdendo una straordinaria opportunità. Con una pandemia in corso abbiamo capito che non è una buona idea impacchettare i bambini in scuole sovraffollate. Al tempo stesso abbiamo visto i limiti della didattica a distanza. Allora perché non trasformare le città nelle aule per ragazzi e ragazze per i prossimi 6 mesi? In tempi di Covid le città sono piene di spazi inutilizzati e di persone che non esercitano la propria professione. Perché non usare la città come una scuola e i suoi abitanti come maestri? Portare i bambini all’esterno il più a lungo possibile, a fare lezione sotto agli alberi, nei parchi, negli edifici pubblici, nelle piazze, a imparare da meccanici, maestri di Yoga, artisti, chef. Sarebbe un esperimento affascinante e giustificabile viste le condizioni. Possiamo farlo. Il Covid ci ha insegnato che anche cose che pensavamo irrealistiche sono possibili.
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