Visioni

Regina Spektor e quegli indefinibili tesori di gioventù

Regina Spektor e quegli indefinibili tesori di gioventùRegina Spektor

Note sparse La ristampa di 11.11, corredata dai Papa’s Bootlegs, ci regala una vivida istantanea dell’artista ai suoi esordi.

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 14 dicembre 2022

E venne il tempo in cui la tassonomia dei generi musicali avvertì il bisogno di affidarsi a prefissi quali alt, neo post, precisando il proprio oggetto in senso relativo. L’oppositorio per eccellenza, anti, divenne venne ovviamente il prediletto dagli iconoclasti, che coniarono la sigla antifolk per definire un’area tra punk e folk al cui interno la scrittura e la personalità dell’artista potessero prevalere sulla tecnica. Più che un genere, una scena, calamitata dall’East Side newyorkese proprio come una delle sue madrine, Regina Il’inična Spektor, ebrea moscovita esule nel Bronx. Ma il suo esordio discografico 11.11, autoprodotto nel 2001 in tiratura più che limitata, potrebbe a buon diritto reclamare il prefisso pre-, per come anticipa i tratti che avrebbero reso celebre, di lì a poco, l’artista russo-americana.

LA RISTAMPA ci fa riscoprire una ventunenne appena diplomata in composizione, che non ha bisogno di opporsi alla tecnica né alle forme per esprimere la propria personalità. Una Pavlov’s Daughter — per dirla con un suo titolo — ancora strettamente imparentata con Joni Mitchell e Tori Amos, ma già capace di far coesistere pianismo e hip hop, scrittura e performance, in maniera spiccatamente personale. Fin troppo facile attribuire questa mistura stilistica alle due differenti tradizioni nazionali da lei incarnate, immaginando i protagonisti dei suoi testi come tragici personaggi di un romanzo russo trasposti in una moderna favola americana. Ma questo spiega solo in parte la molteplicità di stimoli evidente sin dall’apertura, Love Affair, nevroticamente accompagnata da uno staccato pianistico che il contrabbasso di Chris Kuffner si premura di addolcire. Una poetica dell’assurdo che emerge dal rapporto tra testi e musiche in Back Of A Truck, 2.99¢ Blues, e nella suddetta Pavlov’s Daughter, vaudeville contemporaneo e autentico manifesto programmatico.

Fin troppo facile attribuire questa mistura stilistica alle due differenti tradizioni nazionali da lei incarnate, immaginando i protagonisti dei suoi testi come tragici personaggi di un romanzo russo trasposti in una moderna favola americana.

MA A PUNTARE le luci sulla scena sono soprattutto i Papa’s Bootlegs, le registrazioni amatoriali realizzate da Spektor padre durante i primi live di Regina. Paragonate alla confidenza con cui oggi, a quarantadue anni, domina il palco (tornerà in tour dal primo marzo) quelle tracce sembrano istantanee a bassa risoluzione di un’esordiente ancora titubante nel presentare la sua prima canzone (Wasteside), che ride della sua incertezza nel chiudere un brano: «How do we end this?». Non meno incerti l’ascoltatore e il critico, che dopo vent’anni si chiedono se tutti quei prefissi siano ancora sufficienti a definire la ricchezza di questa musica.

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