Regina José Galindo, tracce che resistono all’oblio
MOSTRE Intervista all’artista guatemalteca, in mostra a Roma fino al 31 gennaio. Negli spazi della Real Academia de España un lavoro dal titolo «Lavarse las manos»
MOSTRE Intervista all’artista guatemalteca, in mostra a Roma fino al 31 gennaio. Negli spazi della Real Academia de España un lavoro dal titolo «Lavarse las manos»
Fagotti colorati di cotone e voile – c’è anche il braccialetto di conchiglie – che appartengono a quattro donne rifugiate provenienti da Costa d’Avorio, Somalia, Kurdistan e Congo (torneranno alle rispettive proprietarie alla fine della mostra), testimoni delle loro storie dolorose.
Gli abiti sono a terra, ognuno in una sala al piano terra della Real Academia de España a Roma, sede della mostra Lavarse las manos di Regina José Galindo (Città del Guatemala 1974, dove vive e lavora), curata da Federica La Paglia (fino al 31 gennaio 2020). In quei tessuti, anche negli emblematici «wax printed», simbolo di quell’ibridazione di matrice colonialista alla base di un’identità africana inventata dagli europei, c’è traccia della memoria, di un vissuto intenso in cui il personale diventa universale.
L’artista e poeta guatemalteca, a cui nel 2005 è stato assegnato il Leone d’Oro come Migliore Giovane Artista alla 51. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, ha indossato quegli abiti nel corso della performance, il 10 dicembre scorso, mentre la voce delle quattro donne narrava la propria storia nella lingua madre. Parole registrate, intervallate da interferenze emotive, pause e silenzi eloquenti che coinvolgono il pubblico nel «processo di responsabilizzazione», come sottolinea la curatrice. La mostra, concepita come site specific, è una documentazione della performance con i ritratti fotografici dell’artista, l’audio con le storie delle donne rifugiate e i loro abiti. Si tratta del primo episodio della trilogia «cuestiones de estado» (questioni di stato) che, promossa dal Ministero degli Affari Esteri, Unione Europea e Cooperazione di Spagna, Real Academia de España e Centro Culturale di Spagna in Guatemala, prosegue a Madrid con le testimonianze di giovani ambulanti dell’Africa occidentale (Casa America fino al 19 gennaio) per spostarsi successivamente in Guatemala.
In «Lavarse las manos», prima di entrare nelle sale, il pubblico era invitato a partecipare alla performance attraverso il gesto simbolico di lavarsi le mani alla fontanella nel chiostro del complesso di S. Pietro in Montoro…
Ho obbligato il pubblico a lavarsi le mani, come introduzione all’atto di responsabilità a cui lo chiamavo durante la performance. Un gesto immediatamente comprensibile a tutti. Quando con la curatrice abbiamo pensato a questo progetto, eravamo consapevoli che qualcuno avrebbe potuto guardare con superficialità al tema in una chiave di vittimizzazione dei migranti, quando invece l’intenzione era l’opposto. Il gesto è anche ironico, perché rimanda all’attitudine degli europei e delle persone privilegiate – ovunque nel primo mondo – di non assumersi la responsabilità rispetto a quello che succede con le migrazioni. Viaggiando molto, una cosa che sento spesso e che, come guatemalteca mi dà molto fastidio, è il commento che la colonia è di 500 anni fa, senza considerare però che i privilegi dell’occidente, ancora oggi, hanno un costo e da qualche parte bisogna pagare.
Anche prima di questo progetto ha affrontato il tema della migrazione…
Nell’ottobre 2018 sono stata invitata a seguire quella meravigliosa carovana che ha attraversato l’America Centrale per andare negli Stati Uniti. Hanno viaggiato senza i coyotes, perché erano così poveri da non poter pagare i trafficanti di esseri umani. Per la prima volta non c’è stata alcuna forma di violenza, soprattutto violenze sessuali. Mi interessava molto indagare questa nuova forma di migrazione, dove la maggior parte delle settemila persone che hanno viaggiato a piedi erano prevalentemente donne con i figli. Di solito la migrazione illegale è nascosta e notturna – le persone sono come fantasmi – quella volta, invece, si è svolta alla luce del sole. Proprio il fatto che le persone fossero così tante è stata per loro una protezione. A New York, poi, ho realizzato la performance Carguen con sus muertos, dove il mio corpo chiuso in un sacco per cadaveri a cui, per poter respirare, avevo fatto dei piccoli fori sul fondo, è stato portato nelle strade principali della città per tre ore. Ho obbligato il pubblico a trasportarmi, tenendo sempre sollevato il sacco, perché se fosse stato poggiato a terra sarei morta. In questo modo la gente doveva assumersi la responsabilità di vedere la violenza che è il risultato della politiche sull’immigrazione dell’amministrazione Trump. Mi interessa cercare le ragioni che portano a migrare: questioni economiche, sociali. In Guatemala la migrazione è nata negli anni ’80, durante la guerra, quando il paese è stato saccheggiato e la gente è dovuta emigrare per fame, perché non aveva terra. I nostri paesi sarebbero un paradiso, ma sono stati trasformati nell’inferno dagli occidentali, con la sottrazione delle risorse naturali.
A Roma ha incontrato quattro donne migranti provenienti da paesi africani diversi e dal Kurdistan e ascoltato le loro storie…
Sono donne forti le cui storie hanno tutte una nota tragica, perché il viaggio di per sé è tragico. Storie che hanno in comune la stessa responsabilità del primo mondo nei confronti dei loro paesi. Ciascuna, al di là delle sofferenze del viaggio, narra la ragione sociale e la responsabilità di chi è andato nel loro paese a produrre un danno. Soprattutto l’ultima testimonianza della donna congolese è favolosa e terribile. Lei non si crogiola nel dolore, è un’attivista che, malgrado abbia perso i suoi amici e la famiglia, non ha avuto paura di accusare lo stato corrotto, nuovamente venduto alla Francia. Ma dichiarando quello che ha visto è stata costretta a scappare. Nessuno vorrebbe lasciare la propria terra che è sacra. Per me è interessante anche che Lavarse las manos sia stato finanziato dalla Cooperazione spagnola con la Real Academia de España che lo hanno accettato con rispetto, questo ci ha permesso di poter parlare dall’interno del conflitto e dello spazio di potere.
Lei ha scelto di non citare i nomi delle donne, età e status sociale per rendere il messaggio più universale?
Queste donne forti che hanno combattuto – non vittime ma persone consapevoli – hanno lo stato di rifugiate. Per non mettere in pericolo loro e le loro famiglie, rimaste nei paesi d’origine, abbiamo scelto di non renderle identificabili. In secondo piano, come dicevi, anche per rendere universale la tematica. Non importa il loro status sociale, né il mio che presto il mio corpo, è fondamentale rompere lo stereotipo del migrante. Non voglio suscitare compassione, ma consapevolezza. Basti pensare al caso della donna somala che è scappata in Libia, camminando solo con quello che aveva indosso, per sfuggire alle violenze dell’uomo con cui era stata costretta a sposarsi. Lei è una guerriera che ha sfidato il patriarcato. Questa storia va al di là della sua comunità e credo che possa essere una luce per molte altre donne. Tutte e quattro sono donne che hanno trasgredito alle regole.
Indossare i loro abiti, ma poi spogliarsi, è un modo per affidare la responsabilità all’altro?
Non mi libero realmente, non sono un serpente che muta la pelle. Era un atto necessario perché ogni storia, pur avendo dei punti in comune, è distinta dall’altra e necessitava del proprio spazio e rispetto. Era come ripartire da zero senza il carico della mia storia di guatemalteca, né di quelle delle altre donne. Nella performance non succedeva nulla. In piedi, immobile, indossavo l’abito della donna di cui si ascoltava la testimonianza. Il pubblico era chiamato a prendere parte attiva leggendo il testo. È difficile che leggendo quelle storie non ci si sentisse disturbati.
In mostra, per la prima volta, vediamo i suoi ritratti fotografici in grande formato…
Tutta la mia ricerca è incentrata sulla tematica dei diritti umani, ma quando collaboro con altre persone, come in questo caso, il lavoro non si commercializza. Un punto che, fin dall’inizio, era chiaro a tutti, avendo avuto un finanziamento pubblico per la produzione. La scelta del grande formato dipende dal fatto che, formalmente, volevo evocare la grandezza di luce e di spirito di queste donne meravigliose, quattro donne guerriere.
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