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Regeni, Di Maio ammette: non faremo nulla

Regeni, Di Maio ammette: non faremo nullaL’audizione del ministro Di Maio in Commissione parlamentare – LaPresse

Italia/Egitto Il ministro degli Esteri in Commissione: no al ritiro dell’ambasciatore, no al blocco delle armi italiane. La vendita delle fregate Fremm «non è un favore dell’Italia all’Egitto» È vero il contrario

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 17 luglio 2020

Per ottenere dalle autorità egiziane giustizia sulla morte del ricercatore friulano Giulio Regeni, il governo italiano sta «facendo il massimo». Di più non si può. Richiamare il nostro ambasciatore dal Cairo? «Non è necessario», anzi. Interrompere la vendita di armi italiane al dittatore Al Sisi? «Non inficia la ricerca della verità», non è una «leva» adatta all’uopo, e soprattutto se si usa questa procedura per l’Egitto poi «dovremmo fare lo stesso con tutti gli altri Paesi del mondo» in cui non si rispettano i diritti umani.

BISOGNA RICONOSCERE al ministro degli Esteri Luigi Di Maio di essere stato molto più schietto del premier Conte, nel raccontare come stanno realmente le cose. Dal punto di vista di chi siede a Palazzo Chigi, naturalmente. In soldoni, il governo ha le armi spuntate con il regime egiziano, ha di fatto spiegato ieri l’attuale inquilino della Farnesina davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni presieduta da Erasmo Palazzotto (Sel) e rispondendo alle domande dei componenti. Non a tutte però: al deputato di Forza Italia Bettarin che gli chiedeva se il governo fosse disposto in ultima istanza almeno a ricorrere alla Corte internazionale dell’Aja, visto che l’Egitto ha comunque firmato la convenzione internazionale multilaterale sulla cooperazione giudiziaria, l’esponente pentastellato non ha risposto.

Per un tempo che pareva infinito, Di Maio ha rimesso in fila la lunga serie di scambi epistolari, telefonate, incontri al vertice e tra gli “sherpa”, tra politici e tra procure, richieste e rassicurazioni, dichiarazioni di intenti, ultimatum, pen-ultimatum, rotture e tentativi vari di ottenere almeno legittimazione e rispetto per le autorità italiane in suolo egiziano. Eppure, ha assicurato, c’è sempre stato un «fortissimo impegno degli esecutivi di cui ho fatto parte, con un’azione continua e insistente» per far emergere la verità. Ma chi si aspettava almeno una presa d’atto di fallimento è rimasto deluso: Di Maio si è di nuovo unito al dolore della famiglia Regeni, che combatte instancabilmente da quando nel febbraio 2016 il giovane ricercatore è stato rinvenuto cadavere orrendamente torturato e mutilato sulla strada tra Alessandria e Il Cairo.

«Ogni loro critica è legittima e comprensibile e deve essere una spinta per noi». Ma, ha aggiunto, «quando nel settembre scorso sono arrivato alla Farnesina era un anno che le procure non avevano più contatti. Con enorme difficoltà e con la pandemia di mezzo abbiamo fatto riprendere i contatti tra le procure e crediamo che l’azione del corpo diplomatico stia producendo questo processo, che non è nato dal nulla». Ecco perché, ha chiarito definitivamente l’esponente 5S, «è fuorviante credere che avere un nostro ambasciatore al Cairo significhi non perseguire la verità e viceversa è fuorviante pensare che ritirarlo sia necessario per arrivare alla verità». L’ambasciatore Cantiani, ha assicurato il ministro, «si sta occupando di Patrick Zaky» e dei «suoi diritti fondamentali, sollecitando anche il coinvolgimento dei partner europei».

A NULLA È SERVITO ricordargli, come ha fatto il deputato di +Europa Riccardo Magi, che già nell’agosto 2018, dopo un incontro con Al Sisi come ministro dello Sviluppo economico (quell’anno andarono anche Salvini, Moavero e Conte), Di Maio aveva annunciato «sviluppi positivi entro l’anno» sulle indagini, riferendo anche la frase-shock del presidente egiziano: «Giulio è uno di noi». Di Maio si giustifica dicendo che in effetti le relazioni con l’Egitto sono «fortemente limitate» da allora, la cooperazione economica è «depotenziata» e gli incontri al vertice non più proficui come prima.

EPPURE LE ARMI ITALIANE continuano ad essere vendute all’esercito di Al Sisi. «Sì, ma non credo che infici la ricerca della verità», né che interromperne il mercato «possa essere una leva per ottenerla». In particolare sulla vendita delle fregate Fremm e dei veivoli Leonardo, Di Maio riferisce, come ha fatto anche il ministro dei Rapporti con il Parlamento D’Incà rispondendo a un’interrogazione di Leu, che «il governo si è limitato al momento a dare l’autorizzazione alle trattative», il che «non conferisce automaticamente il diritto di ottenere l’autorizzazione all’esportazione», che sarà valutata dopo la firma del contratto. In ogni caso, ha scandito il ministro per chi avesse mai avuto dubbi, «la vendita delle nostre armi non è un favore dell’Italia all’Egitto».

A QUESTO PUNTO, non rimane che attendere. «Il prossimo obiettivo è far incontrare dal vivo i magistrati italiani e quelli egiziani». Perché il governo, su questo è stato chiaro, può solo «assistere l’operato dei nostri inquirenti». «Abbiamo profonda fiducia che i nostri inquirenti siano in grado di far progredire questa inchiesta». Se non ci riescono loro, non ci riesce nessuno, sembra dire. Perché sia chiaro: sul pugno duro di Al Sisi l’Italia ci conta.

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