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Referendum: non si sa, non si deve sapere

Ri-mediamo Siamo già nella griglia prevista dalla norma sulle pari opportunità, il che significa che i tempi concessi al Sì e al No devono essere uguali e che le personalità politiche non possono parlare del voto se non negli appositi spazi

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 5 febbraio 2020

La prossima domenica 29 marzo si voterà per il referendum confermativo dell’avvenuta decisione delle Camere di ridurre il numero dei parlamentari. La data, come è noto, fu assunta dal Consiglio dei ministri lo scorso 27 gennaio. Il giorno successivo il Presidente della Repubblica ha varato il decreto di convocazione dei “comizi elettorali”, pubblicato il 29 sulla Gazzetta ufficiale. Insomma, da giovedì 30 gennaio siamo nel periodo della “par condicio”. Il comma 2 dell’articolo 1 della legge n.28 del febbraio 2000, del resto, evoca esplicitamente – insieme alle altre consultazioni- «ogni referendum».

Legittimo dubbio. Quanta parte della popolazione italiana è a conoscenza di tutto ciò? E chi tra gli operatori dei media è consapevole che siamo già nella griglia prevista dalla norma sulle pari opportunità? Il che significa che i tempi concessi al Sì e al No (le astensioni non fanno testo perché non c’è quorum) devono essere uguali e che le personalità politiche non possono parlare del voto se non negli appositi spazi. Questi ultimi verranno stabiliti sulla base degli appositi regolamenti della Commissione parlamentare di vigilanza (per la Rai) e dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (per l’universo privato). Le bozze dei testi sono forse pronte, ma il varo formale dovrebbe avvenire il prossimo 13 febbraio. Da quella data le maglie della “par condicio” si faranno più strette e i vari contenitori, per approfondire l’argomento, avranno la necessità di essere collegati alle testate giornalistiche.

È bene chiarire tali aspetti non per puntiglio, bensì per la necessità di drammatizzare un problema assai delicato. Non siamo di fronte ad un referendum su di un tema marginale, bensì ad una scelta inerente alla modifica di tre articoli della Costituzione (56, 57 e 59). Stiamo parlando delle caratteristiche salienti della rappresentanza e dello stesso ruolo del parlamento in un sistema che i costituenti costruirono sulla sua centralità.

Il primo obiettivo, dunque, è la corretta e minuziosa informazione sulla posta in gioco. Il servizio pubblico ha l’obbligo, tra l’altro, di mettere a conoscenza cittadine e cittadini su cosa andranno a decidere. La Rai dispone di uno specifico servizio dedicato anche a scadenze simili, “Rai Parlamento”. Non sfuggono pure le emittenti private, che il Testo unico sulla radiodiffusione del 2005 omologa – almeno nella tutela del pluralismo – ai compiti propri di un servizio pubblico.

Già ora è lecito attendersi la definizione di palinsesti adeguati, a cominciare da un format particolare pensato per colmare innanzitutto il deficit conoscitivo sul referendum, come quotidianamente ricorda Radio radicale, che svolge sul serio un’opera di servizio costante e preziosa.

Lo scattare della “par condicio” fa assumere alla stessa deliberazione dell’Agcom del 17 gennaio sull’”equilibrio” dei tempi assegnati alle varie parti politiche nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio (dopo lo scempio “salviniano”) un sapore particolare. L’Autorità è chiamata ad una doppia vigilanza con auspicabili monitoraggi differenti, in quanto l’uno è – in verità – un “riequilibrio”. Per di più, il prossimo 18 febbraio è prevista l’elezione del nuovo consiglio. Attenzione a non determinare un periodo di vacatio decisionale.

Non sarebbe male, poi, se il parlamento (magari con un emendamento inserito nel “mille proroghe”) non provvedesse ad introdurre alcune regole elementari di “par condicio” per i social: a partire dal silenzio elettorale, dalla disciplina sui sondaggi e dalla regolazione delle “dirette”.

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