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Referendum, il puzzle delle date

Referendum, il puzzle delle dateLa sala del consiglio dei ministri

Riforma costituzionale Dopo le regionali il governo deve decidere la domenica in cui si voterà sul taglio dei parlamentari. Ha convenienza ad anticipare la convocazione. Ma non troppo, se vuole evitare il rischio di crisi in primavera e voto in estate con un esecutivo di garanzia

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 25 gennaio 2020

L’argomento è già stato affrontato, a margine del consiglio dei ministri di giovedì sera. I partiti di governo hanno capito che accelerare la convocazione del referendum costituzionale conviene alla maggioranza, perché allunga la legislatura. Dopo le elezioni regionali potrebbero capirlo ancora meglio. Fatto sta che circolano date molto anticipate per il referendum, a correzione di quello che fino a qualche giorno fa era l’orientamento prevalente. Non più maggio, dunque, ma addirittura marzo. La prima data utile – a condizione che il Consiglio dei ministri per decidere la convocazione si tenga entro il prossimo giovedì – è domenica 22 marzo. Per legge è il presidente della Repubblica con un suo decreto, dopo la deliberazione del Consiglio dei ministri, a indire il referendum; dunque palazzo Chigi non potrà che ascoltare l’opinione del Quirinale. Dove però Sergio Mattarella ha una preoccupazione che va nella stessa direzione degli interessi di Conte: evitare il rischio di dover sciogliere le camere prima della definitiva approvazione, con il referendum, del taglio dei parlamentari.

Ecco allora l’ipotesi del massimo anticipo: urne referendarie a marzo e campagna elettorale per il sì e per il no ridotta al minimo, come del resto è stato minimo il dibattito durante l’approvazione della riforma in parlamento. Per chi lo ricorda, il Pd e Leu hanno cambiato idea una volta, quella del voto finale successivo alla nascita del Conte 2 (passando dal no al taglio dei parlamentari al sì) e Forza Italia addirittura due volte (passando dal sì della camera al no del senato e tornando poi al sì).

L’ultimo articolo della legge costituzionale che ha ridotto le camere stabilisce che la riforma diventerà applicabile almeno 60 giorni dopo la promulgazione (successiva al referendum). In quei 60 giorno il governo è già delegato a ridisegnare i collegi elettorali. Volendo tirare a campare, a questi due mesi se ne potrebbero aggiungere quasi altri due, visto che dallo scioglimento delle camere alle elezioni anticipate è l’intervallo di prassi. In questo modo si arriverebbe a luglio, mese nel quale è molto difficile votare e dunque il discorso sarebbe rimandato almeno all’autunno (quando però c’è la sessione di bilancio). Ma non è l’unica soluzione possibile. Perché nel caso di crisi irrimediabile della maggioranza, nulla vieterebbe di sciogliere le camere subito dopo il referendum e prima che siano ridisegnati i collegi. Lavoro che, volendo, si può fare in molto meno di due mesi (agli atti di camera e senato c’è già l’ipotesi proposta dai servizi studi). E a farlo potrebbe essere un governo ad interim, «di garanzia», come già ha iniziato a chiedere parte dell’opposizione. In questo caso si potrebbe votare per le politiche anche a giugno. Dunque Conte deve fare bene i suoi calcoli. Per il governo è meglio fissare il referendum presto, ma non troppo presto

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