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Referendum giustizia, scontro sull’election day

Referendum giustizia, scontro sull’election dayMatteo Salvini – LaPresse

Dopo la Corte costituzionale Salvini spinge per l'abbinamento con le amministrative di primavera. Può aiutare a raggiungere il quorum le consultazioni abrogative rimaste in piedi, ma non è una garanzia. Il governo è contrario. E potrebbe spingere per cambiare la riforma Cartabia e far cadere tre quesiti su cinque

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 18 febbraio 2022

Niente di meglio di una campagna elettorale per provare a risollevarsi. Matteo Salvini sente il richiamo della propaganda e prova a buttarsi alle spalle i fallimenti del Quirinale, i problemi nella Lega e la competizione a destra con Giorgia Meloni dalla quale secondo i sondaggi sta uscendo perdente. Non ha titolo per intestarsi la battaglia referendaria: Lega e radicali all’ultimo momento hanno scelto di non depositare le firme raccolte per sostenere i quesiti sulla giustizia, così che mai si saprà se le sottoscrizioni necessarie c’erano o no. Gli unici promotori dei cinque referendum salvati dalla Corte costituzionale sono i consigli regionali a maggioranza di centrodestra che hanno formalmente presentato i referendum (e sostenuto le spese legali). Ma Salvini mercoledì sera si è piazzato davanti alla Corte costituzionale per farsi riprendere dalle telecamere e ieri ha convocato i radicali nel suo studio al senato, dichiarando ufficialmente aperta la campagna per cinque Sì. Con la quale spaccherà la maggioranza.

Il primo obiettivo, condiviso con Forza Italia, è quello di ottenere l’election day: far votare i referendum assieme alle amministrative previste nella prossima primavera. Storia vecchia: da anni i sostenitori del Sì – dei più diversi Sì – spingono per abbinare i referendum a qualunque tipo di elezione, in modo da limitare quella che è diventata la prima avversaria dei quesiti abrogativi: l’astensione. I referendum abrogativi prevedono infatti un quorum di validità (il 50% più uno degli elettori) che è ormai un ostacolo impegnativo. Proprio per questo, per non falsare il risultato, non è previsto alcun obbligo di abbinamento dei referendum abrogativi con le elezioni, non nella legge cosiddetta sull’election day, introdotta per far risparmiare un po’ lo stato e i comuni. Ma non c’è neanche un divieto esplicito, anche se l’unico precedente di abbinamento tra amministrative e referendum abrogativo (2009) non è ben augurante perché non servì a raggiungere il quorum. Ciò non ostante è questa la prima battaglia di Salvini e di Forza Italia: ottenere l’election day, ufficialmente in nome del risparmio economico garantito (conteggiato, non si sa come, in 200 milioni.

Il primo orientamento del governo – che per decreto dovrà fissare la data dei referendum tra il 15 aprile e il 15 maggio – non è favorevole. Perché Draghi spera di evitare almeno due referendum (forse tre, vedremo) approvando le riforme dell’ordinamento giudiziario. Serve quindi spostare le consultazioni referendarie il più avanti possibile, mentre il voto per le amministrative è in calendario al più tardi il 5 giugno. Anche in quel caso c’è un problema di affluenza, nelle città che tornano al voto il trend è al ribasso da anni (a Genova nel 2017 l’affluenza fu del 48% al primo turno e del 42% al secondo), neanche l’abbinamento dunque può dare garanzie che i referendum aggancino il quorum.

Anche perché sulla partecipazione peserà il fatto che la Corte costituzionale ha tolto di mezzo i tre referendum universalmente riconosciuti come i più popolari: eutanasia, cannabis e anche responsabilità civile diretta dei magistrati. Peggio ancora per l’affluenza sarà se il parlamento dovesse riuscire ad approvare la riforma Cartabia. In quel caso la Cassazione dovrà dichiarare decaduti sicuramente due quesiti: quello che prevede il voto degli avvocati nelle valutazioni di professionalità delle toghe (ora prevista negli emendamenti governativi) e quello che abolisce le firme per la presentazione delle candidature al Csm (ora eliminate). Ma è prevedibile che tra le forze di maggioranza, durante la discussione del disegno di legge di riforma, si farà sentire chi spinge per una più netta separazione delle funzioni. Oggi all’interno di una stessa carriera sono possibili quattro cambi tra le funzioni di giudice e di pm mentre per la riforma si dovrebbe scendere a due. C’è già un emendamento di Forza Italia che vuole ridurre il passaggio a uno, a inizio della carriera, qualcosa di molto simile all’obiettivo del referendum. Non è escluso che il Pd possa preferire una soluzione del genere, parlamentare, al rischio di dover affrontare un referendum con il partito spaccato tra sostenitori del No e del Sì.

Se andasse così, resterebbero in piedi assai depotenziati solo due quesiti sulla giustizia, che guarda caso proprio i due di fronte ai quali la destra si dividerà, visto che Meloni ha annunciato il No di Fratelli d’Italia alla cancellazione della legge Severino e alla limitazione della custodia cautelare. Due quesiti, peraltro, che metterebbero a rischio l’immagine legge e ordine di Salvini. C’è però un ostacolo rispetto a questa possibile soluzione ed è quello del ritardo del parlamento. Che è rimasto mesi in attesa del governo e anche adesso che gli emendamenti Cartabia sono stati annunciati in conferenza stampa ancora non li ha visti depositati in commissione alla camera. Ieri l’esame del disegno di legge delega su Csm e ordinamento penale è per questo motivo ancora slittato. L’ipotesi che Draghi debba rimangiarsi la promessa di non mettere la fiducia sul provvedimento, almeno in seconda lettura al senato, si fa sempre più concreta..

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