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Referendum Atac, perché voto sì

Referendum Una scelta a favore del «pubblico». Votare sì non significa, come molte critiche pretestuose e ideologiche insistono a ripetere, scegliere la «privatizzazione» e andare contro il «pubblico», ma l’opposto: mettere a gara la gestione del servizio con una procedura europea

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 10 novembre 2018

Partiamo da un concetto tradizionalmente caro alla sinistra, quello di «bene comune», e applichiamo questo concetto al trasporto pubblico di linea di una città. L’operazione è solo apparentemente semplice, perché a ben guardare comporta la necessità di rispondere a una domanda non banale: qual è il vero «bene comune»? Cioè: il vero «bene comune» è la qualità del servizio di trasporto pubblico in quanto tale, quella che consente ai cittadini di spostarsi agevolmente da un posto all’altro, di arrivare in orario al lavoro, di tornare a casa in tempo per godersi un paio d’ore con la famiglia, oppure l’azienda pubblica che quel servizio, materialmente, è chiamata a svolgere, senza che se ne possa controllare l’efficienza e garantire la qualità? In altre parole, e focalizzando il ragionamento sulla Capitale: cosa bisogna tutelare per proteggere il diritto di centinaia di migliaia di romani, specie di quelli meno abbienti, a una mobilità che consenta loro di condurre una vita paragonabile a quella delle altre capitali europee? Il servizio di trasporto pubblico o Atac?

Perché è ormai chiaro che le due esigenze sono l’una in conflitto con l’altra. Ostinarsi a proteggere ciecamente l’azienda, ormai tecnicamente fallita da anni e da anni riserva di caccia clientelare dei partiti (e in quanto tale di fatto «privatizzata»), significa automaticamente sacrificare gli investimenti e la progettualità indispensabili a riportare a livelli accettabili un servizio di trasporto pubblico ormai inesistente e da tempo oltre il limite della sopportabilità.

E questo non è ancora tutto. Perché è proprio la necessità di gestire, in emergenza perenne e nel diluvio delle perdite accumulate anno dopo anno, un’azienda fallita a precludere a Roma Capitale di assolvere al suo compito più tipico e più nobile, quello che dovrebbe caratterizzarla nella sua qualità di ente pubblico: programmare il servizio, dettagliarlo, progettare le linee, gli itinerari, fissare in modo congruo il costo del biglietto, studiare la domanda di mobilità, disegnare un’offerta che le si conformi e controllare che la qualità del servizio offerto corrisponda a quanto previsto. Tutte funzioni, queste sì, intrinsecamente rivolte all’interesse dei cittadini, e perciò effettivamente finalizzate al «bene comune».

Col referendum Mobilitiamo Roma promosso da noi radicali i residenti nella capitale saranno posti di fronte a questa scelta, a suo modo epocale: perpetuare il luogo comune per cui è pubblico ciò che è di proprietà del pubblico, a prescindere dalla maggiore o minore utilità che comporta per i cittadini, o affermare finalmente che è pubblico, che è orientato al «bene comune», ciò che è effettivamente in grado di portare un’utilità concreta e misurabile alla collettività, e in modo particolare a chi all’interno di quella collettività è in una posizione più fragile e precaria?

Votare sì non significa, come molte critiche pretestuose e ideologiche insistono a ripetere, scegliere la «privatizzazione» e andare contro il «pubblico», ma l’opposto: mettere a gara la gestione del servizio con una procedura europea, garantendo trasparenza nell’affidamento, rafforzando la funzione di controllo da parte del Comune e restituendo così al «pubblico» il massimo valore, la massima dignità, la massima responsabilità possibile, tutte cose che attualmente sono di fatto precluse. Significa subordinare il profitto di chi dovesse aggiudicarsi la gara alla necessità di fornire finalmente ai cittadini un servizio degno di questo nome: mezzi affidabili, orari certi, condizioni di trasporto confortevoli, mobilità più sicura, senza dover essere costretti ad acquistare auto e scooter al solo scopo di arrivare in tempo sul posto di lavoro.

Votare sì significa votare per tutto questo, al netto della retorica, dei luoghi comuni, delle strumentalizzazioni e della propaganda: schierarsi a favore dei cittadini, della loro libertà di movimento, della loro effettiva possibilità di vivere la città, a prescindere dal reddito e dall’estrazione sociale. Fare una cosa, si direbbe, «di sinistra». In una città come Roma, l’unica cosa di sinistra ancora plausibile. Vale la pena di farci più di un pensiero.

*Consigliere regionale del Lazio Più Europa Radicali

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