Redon, la leggenda annidata nella monografia
Odilon Redon di Roseline Bacou, uscito nel 1956 per l’editore ginevrino Pierre Cailler, in due tomi: La vie et l’œuvre. Point de vue de la critique; Documents divers. Illustrations. Una monografia classica, esemplare, che può piacere a chi soffre le attuali derive della storia dell’arte, destituita dal moltiplicarsi e incrociarsi dei punti di vista e delle chiavi di metodo, il cui esito, generalmente, allontana dall’oggetto. Va da sé che è un modello antico, non riproponibile se non in forme automatiche ed epigonali. D’altra parte, per chi si interessi di Redon, il libro, con la sua prosa trasparente, la solida struttura intorno a un pensiero, l’incastro perfetto delle frequenti citazioni, permane, inaggirabile.
La recente pubblicazione di Redon retrouvé. Œuvres e documents inédits, a cura di Dario Gamboni, Laurent Houssais, Pierre Pinchon (Cohen&Cohen Éditeurs, 2022), offre la cornice al discorso, la quinta parte essendo dedicata, e a Gustave Fayet, il celeberrimo collezionista amico di Redon, nonno materno della Bacou (saggio di Alexandre d’Andoque), e alla stessa storica dell’arte, nella sua eredità redoniana (Charlotte Foucher).
Il pieno accordo di Arï
Un’eccezionale congiuntura biografica rese possibile alla giovane Bacou, nata provenzale (Le Pradet) nel 1923, di familiarizzarsi profondamente con il mondo di Redon, oggetto, nel 1953, della sua tesi all’École du Louvre.
Nel 1956, poco prima della pubblicazione, rivendicava per il suo lavoro – integrato in quello stesso anno dalla cura della mostra redoniana all’Orangerie – il pieno accordo di Arï, Redon figlio, e soprattutto, pur appoggiandosi sull’anteriore – le monografie di André Mellerio, Charles Fegdal, Claude Roger-Marx, quest’ultima apparsa nel 1929 –, l’utilizzo, privilegiato, di un’importante serie di testi inediti. Era cominciata così la sua vita con Redon, che si compirà nel 2008 – a cinque dalla morte, novantenne – nella mostra avignonese Odilon Redon. De la nuit à la lumière: il titolo condensa la sua lettura finalizzata del pittore, divenuta canone.
Entrata, 1949, nel Cabinet des dessins del Louvre, è qui che la Bacou svolgerà intera la sua carriera, fino alla nomina, nel 1984, di conservateur en chef. Una posizione che orientava la sua ricerca verso il disegno degli antichi maestri – francesi, italiani, fiamminghi –, di cui divenne una notevole specialista.
L’interesse redoniano fu dunque coltivato a parte, insieme obbligo morale e vacanza professionale, anche se, dall’interno dell’istituzione, la Bacou sempre cercò di orientare la ‘fortuna’ del sognatore bordolese. Nella mostra a sua cura Maîtres du blanc et du noir au XIXe siècle, tenutasi al Louvre nel 1968, i tenebrosi carboni di Redon sigillavano, in chiusura, lo svolgersi di una corrente alternativa nel secolo del colore.
Tuttavia la relativa estraneità di Roseline Bacou agli studî sul simbolismo implicava, rispetto a Redon, un approccio altro, fondato sull’intreccio arte-vita, da lei compulsato nelle carte spesso inedite, cui aveva facile accesso. Questa prospettiva biografica ha mostrato certo i suoi limiti, puntualmente evidenziati nel saggio di Charlotte Foucher: se la Bacou intendeva scollare dal suo eroe l’etichetta di «pittore letterario», rimontante a Huysmans, la sua analisi delle «molteplici interazioni tra il pittore, gli scrittori e la letteratura» non era poi così precisa come, più tardi, quella di Dario Gamboni, oggi tra i più originali esegeti di Redon; il prevalere degli aspetti ambientali e psicologici andava a detrimento dell’analisi formale e tecnica; prendendo «pochi rischi in termini metodologici e interpretativi», la storica dell’arte «trascurava gli aspetti darwiniani e cosmologici dell’opera … o ancora la sua dimensione esoterica».
La donazione del 1982
L’internità alla vicenda esistenziale di Redon, tramite la memoria del formidabile nonno Fayet, se le dava un indiscutibile vantaggio operativo, conteneva le insidie intellettuali dell’eccesso di partecipazione: la Foucher non manca di rilevarlo, finendo per valorizzare, più che la monografia, il puntuale lavoro di identificazione e localizzazione delle opere, e la promozione dell’artista, in un paese nei suoi confronti abbastanza distratto, culminata, 1982, nella donazione ai Musées Nationaux, predisposta da Arï prima della sua morte, del corposo fondo redoniano rimasto nella casa parigina di 129, avenue de Wagram, e oggi conservato al Musée d’Orsay.
Senza avventurarci nei caratteri genetici della «leggenda dell’artista», come definita da un celebre saggio di Ernst Kris e Otto Kurz (1934), non c’è dubbio che dall’insieme degli scritti di Redon – le «note sulla vita, l’arte e gli artisti» confluite in quella specie di autobiografia, uscita postuma (1922), che va sotto il titolo À soi-même; l’insieme copioso delle lettere – sortisce, sostenuta dalla prosa incantatoria, un’immagine di sé disponibile all’agiografia. La Foucher sostiene giustamente che il libro della Bacou «non sempre evita le trappole del mito, abbozzando un ritratto di Redon quale artista isolato, incompreso, solitario e visionario, pur riconoscendo in lui un “genio francese”».
Questo ritratto è in buona sostanza lo stesso che Odilon volle trasmettere in parole, anche attraverso un severo controllo della ricezione critica, respinta nelle interpretazioni troppo risolute o ideologiche, là dove minava la sua rivendicata indipendenza – «je fait un art selon moi seul» – e l’ineffabilità del suo pensiero figurativo.
La leggenda redoniana si prolunga dunque, almeno in parte, nelle pagine della Bacou: il fascino è proprio nel suo insinuarsi ‘a contrasto’ entro un costrutto accademico, moderno, virtualmente oggettivante come la monografia d’arte. È vero, d’altra parte, che l’esperienza e la sempre maggiore dimestichezza con le fonti primarie (ricordiamo, 1990, il prezioso spoglio della biblioteca di Redon) renderà via via più equanime l’approccio della Bacou.
Congedo dai «Noirs»
Nella monografia del ’56 la chiave di lettura è insieme binaria e ascensionale, vuol dire che la transizione di Redon dal bianco e nero al colore assume un valore quasi teleologico: de la nuit à la lumière.
L’emersione del colore data all’inizio degli anni novanta (Yeux Clos, 1890). Decennio decisivo: Redon è al termine del suo viaggio notturno, si congeda dal mondo dei Noirs; si noti che la dizione Noirs, per indicare l’intera stagione in bianco e nero (disegni e incisioni), è coniata proprio dalla Bacou, con l’intento, più o meno consapevole, di figurare la netta cesura rispetto al colore, e l’effetto, sul piano critico, di una lettura relativamente indistinta del corpus. Gamboni ha rigettato come semplificatoria l’idea dei «due» Redon.
La struttura della monografia è di tipo drammaturgico, i capitoli IV e XI simmetrici, antinomici: Solitude, Lumière. Un capitolo, il X, è naturalmente dedicato alla «perdita di Peyrelebade», l’antica tenuta paterna nel Médoc (capoluogo Bordeaux), «un tempo coperta di ardesia», dove il piccolo Odilon aveva aperto gli occhi sulla realtà visibile e invisibile, sulle nuvole che si trasformano, come ricorda nelle note autobiografiche, in «esseri bizzarri, chimerici e favolosi». Vi tornava ogni estate per ritrovare il contatto con le sorgenti del suo mondo immaginario, in «un’“orgia” di silenzio, di solitudine e di lavoro» (Bacou). Nel 1897, dopo la vendita in seguito a un amaro contenzioso con la famiglia, Redon fece un ultimo soggiorno, da aprile a novembre: egli «… è sradicato. Libero e pronto a chiedere al colore e ad altri paesaggi la dolcezza di una distensione». Per la Bacou, dunque, il colore risulta esito, più che di uno sviluppo organico della ricerca formale, di un trauma psichico, e si carica di un valore quasi apotropaico.
Le pagine dedicate a Redon dopo la perdita di Peyrelebade implicano, più del resto, una memoria familiare. È in questa stagione che Odilon si lega a uno scelto milieu meridionale di cui fa parte, svolgendo un preciso ruolo nella sua nuova vita, il nonno della studiosa, Gustave Fayet. Padre della madre Simone, di cui l’artista realizzò un meraviglioso ritratto a la poupée, Fayet, grande viticoltore nato a Bèziers, Occitania, nel 1865, è stato oggetto negli ultimi anni di saggi e ricerche, integrati adesso dal contributo, con novità, di Alexandre d’Andoque. Amico di un altro re delle vigne, Maurice Fabre, insieme a lui, sui trent’anni, a Parigi, Fayet aveva scoperto l’arte moderna, nelle espressioni clamorose di Cézanne, Van Gogh e Gauguin, il quale ultimo, ormai a Tahiti, fu con lui in relazione epistolare, e improntò inizialmente il suo gusto collezionistico, e anche di pittore in proprio. Condivisa con Fabre, la relazione, presto intima, che lo lega a Redon rimonta al 1899 o al 1900: porterà un segno indelebile nel suo sentire artistico, soprattutto in chiave di astrazione decorativa.
Ma, di contro, quale funzione svolge Fayet nel complesso teatro spirituale che è la vita intima di Redon? Qui l’investimento interpretativo di Roseline Bacou si fa particolare. Sud si chiama il capitolo, costruito, di nuovo, su due polarità drammaturgiche: la prima è rappresentata da Gabriel Frizeau, l’altra proprio da Fayet. Frizeau fu un altro facoltoso viticoltore, bordolese, legato a grandi anime del suo tempo, Gide, Claudel, Jammes. A sua volta amateur, anche la sua collezione era dominata dalle opere di Gauguin e di Redon.
Lasciata Peyrelebade, nel 1898 Odilon aveva stabilito la sua residenza estiva nel paese marittimo e solare di Saint-Georges-de-Didonne, Nuova Aquitania, paese che rappresenta per lui la riconquista del Sud, come spiega, in Redon retrouvé, il fine saggio di Pierre Pinchon, basato sulla teoria dei climi. Se a Peyrelebade non erano stati i caratteri meridionali della regione – la Vigna – a corrisponderlo, ma la stregata desolazione della Landa, che lo aveva orientato verso il Nord e… i Noirs, Saint-Georges è la luce, il colore, e la tarda amicizia con i viticoltori collezionisti una sorta di riappropriazione di quella parte delle sue origini che egli aveva reciso negli anni «dolenti» e «mistici» di gioventù.
Complicazione cattolica
A Saint-Georges si riuniva d’estate il cenacolo intellettuale cui lo aveva introdotto Frizeau: cenacolo che, fortemente intriso delle gravi problematiche relative al dogma cattolico, ‘complicava’ in Redon la serenità filosofica conquistata. Paul Claudel faceva proseliti, fra i quali lo stesso Frizeau, che a Redon aveva spesso confidato i suoi dubbi e le sue angosce. La Bacou tratteggia magistralmente i termini del problema, stretto il montaggio dei testi epistolari: riferisce come Redon, un giorno, risponda laconico agli interrogativi di Frizeau «sotto la forma di un esemplare della Baghavat-Gita».
Sappiamo delle simpatie orientalistiche dell’artista, autore, verso il 1905, di un celebre pastello Le Boudda; di come il ‘distacco’ indiano avesse contribuito, forse, a quella forma di saggezza, e anche di leggerezza, testimoniate da diverse fonti. Frizeau rende partecipe Claudel del consiglio di lettura di Redon, ricevendo l’ammonizione: «i libri buddisti … contengono la blasfemia radicale che è l’amore e la ricerca del nulla». Sotto la sua guida rientrerà definitivamente nel seno della Chiesa: è il 1905, giorno dell’Ascensione.
Solitudine a Saint-Georges
Bacou, paragrafo successivo: «Saint-Georges è deserta nell’estate 1905… Né Frizeau, né Jammes. Questa solitudine pesa a Redon…». Ma, continua il testo, «Rassicuriamoci; Redon resta fedele a se stesso. Si rimette a lavoro; i fiori, le farfalle, le alghe segrete cantano di nuovo nei suoi pastelli». E, in una lettera dell’ottobre 1905, scrive l’artista: «Diderot diceva: “facciamo dei racconti e la vita scorre”, noi dovremmo dire lo stesso: “Copriamo le tele…”».
Questa posizione «scettica, senza amarezza», che Redon amava in Montaigne, uno dei suoi preferiti, è idealmente rappresentata, per Roseline Bacou, dall’amicizia con Fayet, estranea a «problemi così gravi» come quelli posti dall’«anima inquieta» di Frizeau. Scena madre, l’Abbazia di Fontfroide, presso Narbona, antico centro spirituale della Linguadoca, cistercense. Nel 1908 Fayet, spalleggiato dalla moglie Madelaine, si incaricò di sottrarre l’edificio al totale abbandono, restituendogli l’«autentica grandezza», recuperando, sotto il posticcio degli interventi posteriori, «la primitiva semplicità delle volte romaniche».
All’«odorosa solitudine» di Fontfroide, sappiamo, Redon destinò il capolavoro della sua vecchiaia, i due grandi pannelli affrontati, all’interno della Biblioteca, con Le Jour e La Nuit: definiscono, paradigmaticamente, un’espressione decorativa a oggetto indeterminato, che avrebbe colpito Duchamp, e che svolge nel modo più sottile l’estetica dell’ambiguità, delle «immagini potenziali», come formulata da Gamboni. La Notte, «inquieta e popolata», appare alla Bacou un ritorno, «unico nell’opera di Redon, alla stranezza dei “Noirs”»: riemerge l’angoscia, la stessa testimoniata da Fayet, il quale, dopo la prima notte dell’artista a Fontfroide (settembre 1908), lo trova, la mattina, disorientato, «pallido»: «Oh! – mi ha detto – queste vecchie mura così alte, queste vecchie pietre mi fanno paura». Il Giorno, con la gialla radiosità del carro di Apollo, dovrebbe essere la risposta all’angoscia, alla paura.
All’angolo inferiore sinistro del Giorno, una statua del Buddha in legno dorato: i raggi del nimbo si prolungano nel «caos fiorito» del pannello, così naturalmente che vien da pensare – l’ipotesi è di Gamboni – a una regia dello stesso Redon. All’entrata, sopra la porta, l’«enigmatica figura del Silence, le dita sulle labbra». È il Cristo del silenzio, motivo che era emerso, fra altri cristologici, negli anni di crisi precedenti la perdita di Peyrelebade, a partire dalla grave malattia del 1894-’95: una «crisi mistica», «compimento necessario dell’avventura interiore di cui testimoniano i Noirs» (Bacou, 1956, cat. mostra). A Frizeau, che lo interroga, nel settembre 1909, sul senso delle sue composizioni a carattere religioso, Redon risponde quasi con sprezzatura: «La mia arte non mi ha dato che delle grandi amicizie fra i cattolici. Dovrò pure far qualcosa per loro».
Il Buddha e il Silenzio
Il Giorno, la Notte: è lo stesso principio duale a governare la presenza, nella Biblioteca di Fontfroide, del Buddha e del Cristo del silenzio? Come puntualizzato da Gamboni, la «spiritualità» dell’Abbazia riportata in vita da Fayet «era ecumenica e tinta di esoterismo».
Ma per quanto si sia spiegato e raccontato, le parole di Redon lasciano sempre una porta aperta sul mistero. Siamo così sicuri della sua presa di distanza dalla confessione cattolica? Che non faccia… l’indiano? D’altro canto il suo Cristo del silenzio sembra originare da una fantasia sincretistica, come suggerì Theodore Reff (1967). Gli occhi serrati nel credo interiore: distanza siderale, pneumatica, dal rumore del mondo, e delle dispute dottrinali. In un omaggio ‘in morte’, 1916, di Paul Sérusier, il capofila dei Nabis, Redon è diventato egli stesso il Buddha, inghiottito nel mare, circondato dai pesci.
Certo è che la partecipazione intima, familiare, al ‘teatro’ di Fontfroide, giustificano la lettura orientata, troppo orientata, di Roseline Bacou: «la dualità del genio di Redon», la leggenda dell’artista annidata silenziosamente nella storia dell’arte.
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