Red Baraat tra bhangra, jazz e rock
Note sparse Si intitola «Bhangra Pirates» l’ultimo album della band fondata a Brooklyn nel 2008. Un ensemble multietnico costruito intorno al leader, il suonatore di dhol Sunny Jain
Note sparse Si intitola «Bhangra Pirates» l’ultimo album della band fondata a Brooklyn nel 2008. Un ensemble multietnico costruito intorno al leader, il suonatore di dhol Sunny Jain
Originariamente legato, in particolare in ambito rurale, alla celebrazione di alcune ricorrenze, il bhangra è il genere musicale più popolare del Punjab, da cui è arrivata la componente culturalmente dominante fra gli immigrati dell’Asia meridionale in Gran Bretagna. Negli anni ottanta a Southall, il sobborgo indopakistano di Londra, una nuova generazione ha cominciato a suonarlo con synth, sampler e batterie elettroniche, strumentazione che si è sposata a meraviglia con il dinamismo ritmico-percussiva che è l’essenza del bhangra, caratterizzato dal ritmo del dholak, grande tamburo di legno portato a tracolla e percosso con bacchette, e del dholki, tamburo più piccolo suonato con le mani.
Alla metà del decennio il nuovo bhangra emerge come una musica estroversa, giocosa, che fonde la sua matrice tradizionale con rock, disco, hip hop, house, reggae (più avanti techno, drum’n’bass, ecc.), raggiungendo grandi livelli di intelligenza combinatoria. Una attitudine al mix che ha avuto come retroterra proprio il Punjab, un crocevia di culture, che è stata corroborata dall’arte del riciclo e del montaggio creativo della musica da film indiana, e che ha trovato conforto nella sensibilità pop britannica. Data la sua vocazione all’amalgama, niente di strano se il bhangra trova linfa anche in un calderone come New York, e se a suonarlo non sono solo musicisti di origine indopakistana.
Fra i musicisti coinvolti in Bhangra Pirates, ultimo album di Red Baraat (Sinj Records), una band fondata a Brooklyn nel 2008 dal suonatore di dhol Sunny Jain, troviamo un assortimento di origini non solo asiatiche. Red Baraat, che allinea anche nomi affermati nel jazz di ricerca come il batterista nippoamericano Thomas Fujiwara e il sassofonista californiano Jonathon Haffner, mescola bhangra, jazz, rock e brass-funk, vale a dire fiati con quello slancio, quell’impatto un po’ anfetaminico e festoso a cui ci hanno abituato gli aggiornamenti contemporanei delle tradizioni di fanfare, dai Balcani fino appunto all’India. La musica è godibilissima per la sua allegria, il suo vitalismo, il suo «tiro», ma anche per la sua fattura tutt’altro che banale, con arrangiamenti che mettendo in valore una strumentazione piuttosto articolata – tamburi tradizionali, sax, trombe, trombone, sousaphone, chitarre e batteria – sono molto brillanti e di grande respiro, con qualche punta gustosamente persino quasi sinfonica.
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