Tra chi si diploma e si iscrive all’università in Italia uno studente su due non ce la fa. Su 100 iscritti alle superiori solo in 18 arrivano alla laurea. Almeno 130 mila adolescenti che hanno iniziano le scuole superiori non arriveranno al diploma. È la storia di un fenomeno radicato, e mai affrontato con la necessaria serietà alla ricerca di soluzioni di sistema, chiamato «dispersione scolastica».

A FERRAGOSTO il fenomeno, non solo italiano va ricordato, è stato raccontato nuovamente in un dossier pubblicato sulla rivista specializzata «Tutto scuola». Ciò che è interessante è il collegamento tra questa condizione – prodotta da una serie di fattori non limitabili solo alla scuola ma al contesto sociale economico e familiare in generale – e un mercato del lavoro dove due persone su cinque che non hanno un titolo di studio superiore alla licenza media, un giovane su quattro non studia né lavora e chi ha un titolo di studio universitario fatica a trovare un’occupazione «allineata» a un corso di studi organizzato sulla base delle «competenze» e sull’ideologia del capitale umano da investire sul mercato.

DAL PUNTO DI VISTA neoclassico, ispirato alla teoria dell’equilibrio generale del mercato dove la domanda e l’offerta si incrociano efficacemente secondo leggi apparentemente oggettive, questo è un disastro. Come nel caso della cosiddetta «fuga dei cervelli», espressione contestabile che limita l’emigrazione di massa dei giovani, e meno giovani, italiani al capitale intellettuale e ai titoli della distinzione accademica, anche in quello della dispersione scolastica si ricorre a stime clamorose, ma altrettanto dubbie, che quantificano la «perdita» di «capitale umano» in «55 miliardi» di euro. La stima è stata realizzata in base ai criteri stabiliti dall’Ocse secondo il quale in Italia si investe poco meno di 7mila euro l’anno a studente, per l’istruzione secondaria, mentre il costo degli abbandoni si misura in media in 2,7 miliardi di euro all’anno. In vent’anni si arriva a 55 miliardi.

SIMILI CIFRE, ricavate da parametri che identificano l’istruzione con un investimento, e lo studente come un portatore vivente di un’astrazione capitalistica, producono di solito un effetto sensazionalistico. E l’impressione angosciante che la «nazione» stia perdendo il suo «capitale» in un mercato globalizzato della «conoscenza» a favore di altre nazioni «più competitive». Da qui nascono anche gli inviti a fare presto, perché il tempo è denaro. Per contrastare questo mercato disfunzionale della forza lavoro nel tempo si è fatto ricorso ad altri investimenti, ritenuti inadeguati rispetto all’entità del fenomeno. Statisticamente alcuni risultati sono stati raggiunti: gli abbandoni sono passati dal 36,7 del 1996-2000 al 24,7 per cento tra il 2013 e il 2018. Ma si continua a lamentare la mancanza di una politica complessiva che, ispirata ai medesimi criteri economici problematici e raramente discussi, affrontino il problema sociale nella sua interezza.

CONSIDERATA L’ENTITÀ del fenomeno, e la sua estensione, è più che legittimo il dubbio per cui una delle difficoltà derivi dagli strumenti analitici, e dalle conseguenti politiche che non riescono a risolvere poco o nulla. Se così fosse, allora si tratterebbe di considerare la dispersione scolastica come un effetto dell’impoverimento di massa creato dalla svolta neoliberista nella vita di milioni di famiglie negli ultimi vent’anni. A livello teorico, il collegamento sembra chiaro: la povertà porta anche all’abbandono della scuola. Lo è molto meno per quanto riguarda le politiche concrete. Lo dimostra la raccomandazione giunta a fine luglio dalla relazione della Corte dei conti sulla lotta alla dispersione scolastica che ha rinnovato l’invito a rendere le scuole non solo luoghi di apprendimento, ma anche occasioni di esperienza di comunità e solidarietà. Giusto, ma la solidarietà nasce quando si comprende che la causa è il sistema. La scuola del capitale umano è il suo effetto.