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Rebora, attesa di una rivelazione

Rebora, attesa di una rivelazioneTullio Garbari, Scampagnata, 1913

Poesia del Novecento Tutti impastati di un pensiero ai limiti del sincretismo, i Canti anonimi di Clemente Rebora uscirono nel 1922, dopo il trauma della Guerra. Li propone Interlinea, li commenta Gianni Mussini

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 22 maggio 2022

In una lettera del 29 maggio 1909, quando ha appena ventiquattro anni, Clemente Rebora scrive all’amica Daria Malaguzzi: «Mi convinsi che la bontà (…) è l’unica realtà, alla quale l’anima si avvicina quando è più vasta, più divina e maravigliosa d’amore (…) e che il sollievo più possente della vita è l’aspirazione infinita a questa vastità che ci circonda, nel qual tendere è anche l’unica moralità». A quell’altezza cronologica l’autore milanese veleggia verso la laurea in Lettere con una tesi sul pensiero di Gian Domenico Romagnosi. Le voragini abissali della crisi interiore, come si può agilmente arguire, erano cominciate nell’intuizione di una cosmica misericordia, decisamente avversa alla ragione illuministica paterna. I Frammenti lirici usciranno nel 1913: Clemente è diventato un «professoruccio filantropo» che insegna alle scuole serali e che ha stretto amicizia con i vociani (Giuseppe Prezzolini e compagnia).

Dal tempo dell’ammirevole esordio poetico l’«egual vita diversa» è, a passi brevi, in cammino verso una trascendenza ancora incrostata al muro dell’incomunicabilità. Intanto, tumultuoso arriva il thunderbolt per Sibilla Aleramo che accende la passione, non corrisposta e poi trasferita sulla pianista russa Lidia Natus con la quale il pacioso Clemente andrà a vivere al civico 3 di via Tadino, almeno fino allo scoppio della guerra (l’epilogo ufficiale della liaison è però da fissare l’8 dicembre 1919). Su tali pencolanti basi – la problematicità anche sensuale dell’amore e il trauma cranico provocato dall’esplosione di un obice mentre combatteva sul Podgora – sorgono le poesie dei Canti anonimi, stampati originariamente da «Il Convegno» nel 1922 e adesso riproposti in occasione del centenario da Interlinea, editore reboriano par excellence, con il commento di Gianni Mussini (presentazione di Pietro Gibellini, pp. 264, € 28,00). Per quanto concerne gli aspetti più propriamente filologici, il testo è fondato sull’editio princeps e sulle postille autografe con un solido corteo di varianti. L’egregio lavoro di Mussini è «agli antipodi – nota il prefatore – di quello che Contini liquidava come filologismo, e nel cuore dell’ellisse nei cui due fuochi stanno i termini, amore e parola, che caratterizzano tanto il metodo dell’interprete, quanto la visione dell’interpretato».

Suddivisa in nove componimenti (Non ardito perché ardente, Al tempo che la vita era inesplosa, Campana di Lombardia, E giunge l’onda, ma non giunge il mare, Sacchi a terra per gli occhi, Se Dio cresce, Sotto il deserto, Gira la tròttola viva, Dall’imagine tesa), vestita di sermo humilis e tonitruanti metafore, la silloge è impastata di un flusso di pensiero ai limiti del sincretismo che, secondo Oreste Macrí, è tuttavia ben digerito e «reborizzato»: «Le traduzioni dal russo (Andreev, Tolstoj, Gogol’) – elenca Mussini nella densa introduzione –, il messianismo slavo (Andrzej Towianski), il misticismo orientale (Budda, Tagore) e molto molto Mazzini (…): il tutto alla strenua ricerca di una “rivelazione religiosa moderna”». Non siamo ancora giunti alle pendici del cattolicesimo ma vi è una spinta interna, un’attesa indubitabile, forse ineluttabile. Sin dal titolo si è dinanzi a una dichiarazione d’intenti: con l’aggettivo «anonimi» Rebora – osserva Gibellini – intende allinearsi all’«estetica rosminiana e manzoniana dell’inventio, secondo cui il poeta non è che il tramite di un dono provvidenziale, trovatore e diffusore di testi che esisterebbero prima e fuori di lui».

Questo «ridotto canzoniere» mostra, infatti, una certa progressione spirituale nell’andamento poematico. Ecco le due quartine proemiali che si riallacciano, con grande organicità, agli ultimi versi dei Frammenti lirici: «Non ardito perché ardente / Fuggir lascio la fortuna, / Che inseguita dalla gente / Ansimando si consuma. // Ma raccolgo e in cuore serbo / Sul cammino spopolato / Quanto l’una e l’altra ha perso: / Poi ne rendo a chi ha cercato». Impossibile non notare retrospettivamente la ricreazione ritmica della rima che influenzerà il Montale degli Ossi di seppia e dei primi Mottetti (compreso Il balcone). Segue, con il secondo componimento, la vita inesplosa rivolta al contadino Carlo e alla fanciullezza mnestica che dà barlumi sulle «tèrree nostre notti».
Nel terzo canto – una canzonetta di quindici ottonari – risuona la Campana di Lombardia, «Voce tua, voce mia, / Voce voce che vai via / E non dài malinconia». Dopo il proemio e le due poesie «lombarde», si innesta il troncone della riflessione filosofica: le già tracciate «drammatiche opposizioni» (cielo-terra, io-mondo, tempo-eterno) cangiano in «immagini più nitide e disadorne», come avviene per le nove strofette di E giunge l’onda, ma non giunge il mare. Il testo cruciale della raccolta è però Sacchi a terra per gli occhi, in cui emerge meglio l’anonimato, l’assenza del soggetto lirico che fa altresì spazio, nelle venticinque strofe di un «diagramma melodico in distruzione», a frammenti «raccattati» dall’inferno della guerra.

È qui che si presenta in misura maggiore la fase purgatoriale della poetica reboriana (un ottimo saggio di Roberto Cicala – Da eterna poesia. Un poeta sulle orme di Dante, il Mulino 2021 – ha messo in rilievo il tessuto peculiarmente paradisiaco degli echi danteschi), giocata su una realtà aspra e rigida che si svolge con spersonata mimesi: «Qualunque cosa tu dica o faccia / C’è un grido dentro: / Non è per questo, non è per questo! // E così tutto rimanda / A una segreta domanda: / L’atto è un pretesto. // Quasi specchiante cristallo / Sta la coscienza spietata / A chi bràncola opaco. // Sul viso c’è un solco / Per dove scorre il pianto: / Ma l’occhio inaridisce se guarda». La metanoia di Rebora, il cambiamento totale di prospettiva, sembra ormai nel segno dell’«imminenza di Dio».
Il percorso, in tal modo, si mantiene lungo una climax ascendente: nel sesto canto si estrinsecano la lotta tra Dio e il diavolo, la dimensione del peccato, l’ascesa al petrarchesco monte delle virtù, la tensione ai gradi di perfettività («Ma chi si sveglia nel gran giorno ha fede: / Scorge cader la luce al nostro fondo / Per rivelarci il sol che attende / Sul culmine del mondo»). Il settimo e l’ottavo completano, invece, quanto iniziato: Mussini suggerisce che il deserto, condizione allegoricamente liberata dall’ansia della morte e della distruzione, «è sotterraneamente percorso dal “fiume immenso” dell’energia spirituale che anima il mondo per l’azione gratuita (e naturalmente anonima) di molti»; mentre la tròttola viva, «odiando la terra», «insidia l’ignoto» e «aspira / dentro l’amore, verso l’eterno».

Il testo conclusivo dei Canti anonimi – a giudizio di Giacinto Spagnoletti, «la sua confessione maggiore, ed una delle più alte del secolo» – è anche l’ultimo del Rebora laico. Qual è l’argomento della lirica? «Il poeta attende qualcuno, probabilmente una donna, ma invano. Deve però resistere, continuando a “sbocciare non visto” e avendo fiducia nel proprio tesoro spirituale. Allora potrà aprirsi un varco al miracolo, di cui è anzi avvertibile il promettente bisbiglio». I versi, beckettiani ante litteram, raccontano con sorprendente icasticità e profezia il futuro stesso di Rebora, quell’attesa di Dio che consumerà la sua veglia di lì a poco: «Quando meno l’avverto: / Verrà quasi perdono / Di quanto fa morire, / Verrà a farmi certo / Del suo e mio tesoro, / Verrà come ristoro / Delle mie e sue pene».

Convertitosi nel 1929 a seguito di una crisi religiosa dovuta alla lettura degli Acta Martyrum, ordinato sacerdote a Domodossola nel ’36 dopo essere stato novizio dell’Istituto della Carità dei Padri Rosminiani, don Clemente non abbandona mai del tutto la poesia: Curriculum vitae (1955) e Canti dell’infermità (1956) testimoniano «il minuscolo e il Maiuscolo» che finiscono «per intrecciarsi, per abbracciarsi». Dio è arrivato, «il suo bisbiglio» è voce ormai chiara.

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