Cultura

Rebecca Horn, il corpo è una macchina immaginifica

Rebecca Horn, il corpo è una macchina immaginificaRebecca Horn in una sua sala espositiva a Mosca, 2022

Ritratti La scomparsa a 80 anni della performer, fotografa e cineasta tedesca. L’artista ha molto lavorato sul volo come processo di una liberazione psico-fisica

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 10 settembre 2024

Piume, maschere e appendici protesiche, oggetti mutanti, sculture aeree, alchimie di un corpo esteso, architettato in balsa e tessuto (legato strettamente ai raccordi con la letteratura, con la filosofia e con i padri del cinema) racchiudono la fenomenologia del sentire che Rebecca Horn (Michelstadt, 1944-2024), sublime e famosissima artista liminale, ci ha lasciato in dono. Un patrimonio visuale macchinoso, che nessun altro artista è riuscito a inseguire e a far collimare con il proprio. Non ha lasciato epigoni poiché inarrivabile.

Horn dunque, col suo fine avangardismo, ci lascia improvvisamente svuotati e chiude, con la sua scomparsa, la stagione mitica dei titanici performer. Ma Rebecca non è stata solo una strepitosa creatrice di performance, più o meno delegate (tranne pochissime vissute) ma anche una scultrice surreale, una fotografa, una disegnatrice compulsiva e una cineasta sperimentale. In fondo, era una utopista, che andava a comporre una semiologia visiva simile a una wunderkammer della complessità.

LE SUE PERFORMANCE, come le sue sculture, nonché i suoi film sono le proiezioni di un rimosso che riaffiora costantemente nella sua ricerca e che si discosta dal cliché femmineo rivendicazionista dell’epoca. Esse aprono a una semiologia estetica pregna di allusioni e insofferenze, costruita con oggetti meccanici, articolazioni impossibili e «proiezioni» del desiderio.

Copyright: ©2021 Stefan Haehnel

È nel suo smarrirsi nei meandri dell’inconscio, nel disattivare i meccanismi razionali che la costruzione galattica di «oggetti» stranianti e stupefacenti si disvela totalmente. Le sue tentazioni oscillano tra il pensiero surrealista in quanto superamento del controllo della coscienza, la spasmodica attrazione per l’oggetto metamorfico e una corporeità ibridata. In questa zona scomoda, il corpo, è il suo dispositivo di traslazione visiva e già nelle sue prime performance spaesanti, si allude a un vissuto autobiografico perturbante, con cui Rebecca Horn vuole fare i conti: tutte le sue allusioni al volo e al piumaggio ci raccontano in filigrana un suo passato drammatico, sanitario, superato fisicamente ma non psicologicamente. Dalla primaria performance Einhorn (1970) presentata a Documenta 5 (1972) curata da Harald Szeemann.

L’unicorno è la creatura mitica che la libera dalle sofferenze cliniche, trascorse su una sedia a rotelle (sedia che ritroveremo nel film Buster’s Bedroom) e che la involano mentalmente a uno stato anarchico nelle sue successive azioni raccolte nei cicli Performance I e Performance II (1972): Red Limbs, Red Breast, Black Expansion, Black Cockfeathers, Head Balance, Shoulder Extensions, Feather Instrument, Simon-Sigmar (con Sigmar Polke) e anche Head Extension, White Body Fan, Finger Gloves, Feather Finger…

QUI, SPIRA l’idea utopica dell’essere mutante, dell’uomo-uccello, che verrà perseguito attraverso la dimensione metaforica dei suoi oggetti d’attrazione, lavorando sul concetto di levità e quindi sul volo come processo di liberazione psico-fisica. E non basta, perché il suo mondo immaginifico viene costellato dalle sue sculture cinetiche sovvertitrici, realizzate dagli anni Ottanta, che irrelano strutture mobili come violini, valigie, bacchette, scale, pianoforti, ventagli di piume e metronomi, che operano oltre la loro materialità definita e sono trasposte in continue metafore che toccano immagini mitiche, storiche, letterarie e spirituali.

Di queste: Zen of Circle (2011), Les Amants (The lovers), del 1991, American Waltz (1990), Concert for Anarchy (1990), Knuggle Dome for James Joyce (2004), The Raven’s Twin (2009), Das Blau des Himmels, G. Bataille (2014), Butterfly (2006) fino all’opera pubblica sbilenca, vitrea e allusiva de L’Estel ferit (1992) su La Barceloneta (Barcellona).

LA VERTIGINE diventa placentare attraverso il suo cinema. L’apparizione, l’epifania, il trauma visivo, l’alchimia sequenziale, la deterritorializzazione, la perdita del filo conduttore, la riduzione logica, l’ambiguità e una macchina attoriale (come la definiva Carmelo Bene) immaginifica.

In un depistaggio continuo e in un vortice fascinatorio tra Louis Buñuel, Germaine Dulac, Maya Deren, René Clair e Deleuze si palesano i suoi bizzarri tre lungometraggi di fiction: Die Eintäzer (1978), La Ferdinanda (1981) e Buster’s Bedroom (1990) con Donald Sutherland e Geraldine Chaplin, in cui accosta il proprio immaginario visivo a trame intricate e simboliche, con un costante riferimento a personaggi-iconici come il musicista, l’attrice, la ballerina, l’infermiera, di cui ognuno è un prototipo psicologico o fantastico.

I protagonisti, inoltre, vivono in realtà inesistenti ed isolate dal mondo. Qui il concetto del doppio e del fantasmatico viene reiterato e suggellato. Der Eintänzer è una stupefacente macchina celibe, allorché le piume di uno struzzo si tramutano in una sorta di macchina antropomorfa sul corpo di una ballerina. La scultura The Feathered Prison Fan è il rimando a Mechanischer Korperfacher (1974 -1975) e una prefigurazione della futura scultura The Peacock Machine del 1981, presentata l’anno successivo a Documenta 7, curata da Rudi Fuchs.

L’osmosi assimila l’aspetto performatico, scultoreo e cinematografico. Nel 1993 il Guggenheim di New York ha organizzato una delle più importanti retrospettive di Rebecca Horn, tra le tantissime dedicatele in tutti i musei del mondo durante la sua «favolosa» esistenza.

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