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Rebatet, ritratto contestualizzato di un fanatico antisemita

Rebatet, ritratto contestualizzato  di un fanatico antisemitaCatherine Deneuve in una scena di «L’ultimo metrò» (Le dernier métro) di François Truffaut, 1980

Collaborazionisti francesi Condannato a morte e graziato, Lucien Rebatet (1903-1972) fu sempre autore impresentabile, ma George Steiner apprezzò il suo romanzo «I due stendardi». Di Claudio Siniscalchi esce ora la biografia «Un rivoluzionario decadente», da OAKS

Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 giugno 2023

Grande fu lo stupore dei lettori quando sul «New Yorker» del 24 agosto 1992 (ora l’articolo è in Letture, Garzanti 2010) George Steiner si produsse nella apologia di un romanzo, Les deux étendards, estraneo per non dire ignoto al senso comune dei lettori, paragonandolo a Guerra e pace. L’aveva scritto fra guerra e dopoguerra, pubblicandolo nel 1952, un ergastolano già condannato a morte per collaborazionismo, transfuga con la cricca di Pétain a Sigmaringen, in carcere sulla base dell’art. 75 del Codice penale francese («intelligenza con il nemico»), poi graziato e quindi rimesso in libertà nello stesso ’52: si trattava di Lucien Rebatet (1903-1972), che solo dieci anni prima con Les décombres, un libello che amplifica esponenzialmente i deliri di Bagatelles pour un massacre, ha scritto il best seller dell’Occupazione firmandone le prime copie nella nazificata Libreria «Rive Gauche» lo stesso giorno in cui dodicimila ebrei della regione parigina cadono nella Grande Rafle del Velodromo d’Inverno. Dunque ne concluse Steiner: «Rebatet era un vero assassino, un cacciatore di ebrei, di combattenti della resistenza e gollisti (…) ma il suo lungo romanzo si colloca fra i capolavori nascosti del nostro tempo».

Finalmente in Francia oggetto di filologia e non solo di obbedienze ideologiche (come gli omaggi che a cadenza gli tributa Alain de Benoist), anche in Italia se ne riconsidera l’opera dopo una lunga fase di semiclandestinità editoriale nel samizdat dell’estrema destra di cui sono esempi la pubblicazione delle postume Memorie di un fascista 1941-1947 (a cura di Moreno Marchi, Settimo Sigillo 1993) e di una inchiesta condotta per «Je suis partout» circa la presenza di stranieri in Francia ai tempi del Fronte Popolare, valutata come una sostituzione etnica ante litteram e ora proposta in italiano come La grande invasione (Ardente 2022; ma il volume, edito da un marchio evidentemente neofascista, risulta irreperibile in libreria). Segno di una inversione di tendenza e di un secco incremento d’ordine storico-filologico è da ultimo la meritoria pubblicazione de I due stendardi (traduzione di Marco Settimini, Edizioni Settecolori 2021) e adesso della monografia a firma di Claudio Siniscalchi, Un rivoluzionario decadente Vita maledetta di Lucien Rebatet (OAKS editrice, pp. 182, € 20,00).

Non si tratta di una biografia in senso strettamente documentario (laddove è sempre valida, pure se ormai datata, quella di Robert Belot, Lucien Rebatet. Un itinéraire fasciste, Seuil 1994) ma di un ritratto contestualizzato nella cultura francese fra le due guerre e suffragato da una bibliografia di prima mano. Siniscalchi procede secondo cronologia e di volta in volta focalizza le non poche scene del diorama rebatiano a partire dalla formazione di un ragazzo del secolo, originario di un villaggio del Delfinato e figlio di un notaio framassone, il quale studia dai padri maristi (da cui trarrà un amore paradossale per il paganesimo e un disprezzo totale per il cristianesimo), poi all’università tra Lione e la Sorbona per approdare al giornalismo prima nella Action Française di Charles Maurras poi nel «Je suis partout» presto nazificato, foglio di quel Pierre Gaxotte che fu uno storico notevole della Grande Rivoluzione. Qui Rebatet non è ancora il militante totus politicus che sarà negli anni della Occupazione ma viceversa è un critico di particolare brillantezza e versatilità che sa aprire il suo credo nietzschiano-wagneriano agli apporti del modernismo: firmandosi «François Vinneuil», un chiaro omaggio alla Recherche e al musicista che lì ha nome «Vinteuil», egli si occupa di musica (da vero intenditore scriverà la divulgativa Une histoire de la musique, des origines à nos jours, 1969, purtroppo mai tradotta italiano) e specialmente di cinema poco amando i campioni del realismo poetico alla Carné-Prévert ma lodando gli espressionisti tedeschi, le gag dei Fratelli Marx (nonostante sia un fanatico antisemita) e i film di Jean Renoir emblematici del peraltro detestato Fronte Popolare, La Grande Illusion e La Marseillaise. E qui è molto chiara l’analisi di Siniscalchi che pure ha firmato di recente Senza romanticismo. Robert Brasillach, il cinema e la morte della Francia (Bietti 2022) su colui che nel 1935, insieme col cognato Maurice Bardèche, scrisse una pionieristica e per certi versi insuperata Histoire du cinéma. (Sia detto per inciso, di Brasillach storico del cinema e soprattutto del critico «François Vinneuil» fu un autentico patito François Truffaut, che a suo tempo volle incontrarlo e gli dedicò una citazione ne L’ultimo metrò, del 1980).

Centrale è nella monografia di Siniscalchi la disamina di due opere che stanno tra di loro in termini opposti e complementari, Les décombres e I due stendardi. L’una è tanto la autobiografia di un intellettuale «senza neanche un globulo rosso» quanto una requisitoria sulla Terza Repubblica la cui agonia è imputata allo spirito dissolutore sia dell’illuminismo e del pensiero critico in termini ideologici sia del giudaismo in quelli etnici (e va aggiunto che mentre dura in Francia il discutibile interdetto che vieta Bagatelles, questo voluminoso incartamento è invece leggibile con tutti i crismi filologici, vedi Le dossier Rebatet, édition etablie par Bénédicte Vergez-Chaignon, Laffont 2015, con un bel saggio introduttivo di Pascal Ory); l’altro è il romanzo del tutto impolitico che avrebbe dovuto intitolarsi La théologie lyonnaise e infatti oppone non soltanto le due massime religioni politiche del secolo ma anche una concezione in tutto religiosa e metafisica dell’esistenza a un ateismo che recupera, con Nietzsche contro San Paolo, la «sanità» tutta terrestre del paganesimo, per Rebatet un punto di tangenza con l’ideologia nazista: al centro del romanzo due giovani antagonisti e contrapposti portavoce, i quali si contendono corpo e anima di una ragazza che funge ora da specchio ora da casella vuota o Dafne dileguante. Scrive al riguardo Siniscalchi: «Se Les décombres è la traccia del momento dell’illusione fascista dell’autore, Les deux étendards lo è del definitivo tramonto dell’illusione. (…) La particolarità di Les deux étendards è di essere, innanzitutto, un ‘romanzo teologico-metafisico’, oltreché, con tutta probabilità, il documento più articolato della finzione letteraria dell’epoca della secolarizzazione».

Rebatet scrive per anni la sua opera esorbitante (qualcosa come 1.200 pagine) con le catene ai piedi nel carcere perpetuo di Clairvaux. Al processo ha perduto la faccia con atti di viscido servilismo nei confronti della Corte, poi lo ha salvato l’amnistia del presidente Auriol e uno scrittore che sta al vertice di Gallimard e ha decisa la pubblicazione del romanzo in due volumi, entrambi passati sotto il silenzio della critica e uno scarso consenso di pubblico. Rimesso in libertà, Rebatet sopravvive in un appartamento di Neully-sur-Seine redigendo mode d’eploi per l’industria farmaceutica e via via ritrovando collaborazioni con il vecchio pseudonimo di «Francois Vinneuil» (ancora cinema, musica e solo per eccezione politica senza mai abiurare i trascorsi fascisti e un antisemitismo che egli nasconde, come oggi è d’uso, nel consenso incondizionato alle politiche di Israele). Scrive altri romanzi, per lo più rimasti inediti e comunque imparagonabili a I due stendardi. Muore solo e infamato, quando l’avallo di George Steiner è di là da venire.

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