Alludendo al rapporto tra vita e romanzo, e dunque alle tecniche realistiche che consentirebbero, per dirla à la Henry James, di conferire alla storia «un’aria di realtà», Umberto Eco scrisse che a tutti noi piacerebbe avere esistenze à la D’Artagnan, ma ahimé quello che ci capita più spesso è di condurre vite à la Leopold Bloom. Gli scrittori legati al Modernismo – da Lawrence a Woolf, da Stein a Joyce – hanno in vario modo tentato di scardinare il legame deterministico tra narrazione di tipo realista ed esperienza: sondando i limiti del linguaggio, e addentrandosi nelle sue oscurità, anche ma non solo con l’intento di smentire la possibilità di un realismo romanzesco.

Quando non coglie l’impalpabile della mente ma si accontenta di restituire ciò che abbiamo sotto gli occhi, il realismo nasce falso, anche perché di solito privilegia moto e azione, mentre le nostre vite sono perlopiù fatte di stasi, silenzio, ascolto, sonno, pensiero.

Con il parallelo tra Dumas e Joyce, Eco tentava di far comprendere come la realtà sia còlta assai meglio da chi scrive un «romanzo della mente»  – così Aleister Crowley circa l’Ulisse – che si svolge nell’arco di una giornata, rispetto a chi, nello spazio di qualche centinaio di pagine pretende di raccontare una vita intera. Con Leonard e Hungry Paul (traduzione di Elvira Grassi, Keller editore, pp. 320, € 19,00) il dublinese Rónán Hession, nella vita impiegato ministeriale, ci consegna un romanzo che, per l’assenza di fatti significativi e «avventurosi», si iscrive nel realismo dell’invisibile.

La sua è una storia in cui nulla accade di  sensazionale: le esistenze dei due protagonisti si svolgono senza scossoni, soprattutto quella di Hungry Paul – il cui epiteto, tra l’altro, non ci viene spiegato, dunque non sapremo mai perché sia tanto «affamato».

Sin dalle prime pagine, quando inizia a prendere forma la figura di Leonard – un trentenne che vive in simbiosi con la madre, di cui è per certi versi il miglior amico finché lei non muore nella quiete più assoluta – il passo del racconto è quello della pacatezza. Vive una vita nell’ombra, Leonard. Scrive contenuti per libri divulgativi illustrati che verranno poi firmati da altri, ma non ne prova invidia. Si accontenta di fare bene il proprio mestiere e non è perciò un personaggio grigio. Ha spesso delle illuminazioni – «Forse non è solo l’universo a espandersi e contrarsi… magari vale pure per noi… ci facciamo vecchi, le nostre vite cominciano a ridursi».

Quando la palla passa a Hungry Paul, il quale vive con i genitori pensionati e non sembra ambire ad altro che al silenzio e a riflettere, la trama si dirada ulteriormente. Il climax sembrerebbe ridotto a quanto accade al matrimonio di sua sorella Grace, che si preoccupa di assegnare a Hungry Paul un ruolo nella cerimonia, per non farlo sentire escluso: «Potrei fargli distribuire i libretti della messa, che ne dite?».

Tanti intrecci secondari, tutti minimalistici, si dipartono da queste vicende, e il più intrigante, per quanto privo di virate sensazionali, riguarda il delicato rapporto tra Leonard e la collega di lavoro, Shelley, il cui figlio di sette anni adora i suoi libri.

In controtendenza rispetto al mainstream fatto di intrecci prefabbricati e tutti uguali, questo romanzo, che in Irlanda sta accumulando premi e nomination, dimostra come Hession  non investa in semplificazioni narrative, e punti invece alla valorizzazione di esistenze minori, di dettagli inosservati, e della quiete riflessiva che avvolge gran parte delle nostre vite.