Re Artù, il visionario del regno musicale
Grandi direttori Il massimo biografo di Toscanini evidenzia la forza innovativa del maestro, che promosse molti nuovi titoli operistici, una cultura sinfonica di respiro europeo, uno stile teatrale il cui virtuosismo era mezzo e non fine
Grandi direttori Il massimo biografo di Toscanini evidenzia la forza innovativa del maestro, che promosse molti nuovi titoli operistici, una cultura sinfonica di respiro europeo, uno stile teatrale il cui virtuosismo era mezzo e non fine
Per alcuni versi, la voluminosa biografia che Harvey Sachs ha dedicato a Toscanini La coscienza della musica (il Saggiatore, traduzione di Valeria Gorla, pp. 1200, euro 69,00) si potrebbe leggere come una piccola storia sociale della musica ambientata nella prima metà del Novecento e filtrata attraverso l’esperienza privilegiata di uno dei suoi protagonisti principali. D’altro canto, l’accuratissimo indice analitico rende anche possibile ricostruire ogni aspetto della vicenda umana e artistica dell’illustre musicista, inclusi i rapporti che intrattenne con i colleghi del podio, con alcuni grandi compositori, con i politici dell’epoca e, per esempio, con le molte donne di cui amò circondarsi. L’autore, massimo biografo di Toscanini, ne scandaglia la vita e la carriera secondo un criterio rigorosamente cronologico, utilizzando molti riferimenti epistolari (già oggetto di una pubblicazione precedente) e non omettendo le testimonianze dirette di centinaia di personaggi con i quali il direttore d’orchestra intrecciò rapporti a vario titolo, nell’arco di un’esistenza lunga novant’anni.
La componente ideologica
Sachs – la cui puntualità scientifica non è scalfita dalla devota ammirazione per il maestro – evita in generale di emettere giudizi, di indagare troppo sui presupposti emotivi e caratteriali di certi gesti, di certe risoluzioni che, sul piano musicale e umano, hanno contribuito a connotare la figura di Toscanini. Tuttavia, quasi inevitabilmente, l’analisi dell’uomo viene in parte nascosta dietro una trama fin troppo densa di eventi, sia pure significativi e tutti degni di essere conosciuti; del resto, lo scavo psicologico non rientrava, probabilmente, tra gli obiettivi di questa corposa monografia che permette di sgretolare più di un luogo comune sul personaggio.
Non è vero, ci spiega Sachs, che il leggendario direttore sia stato, per esempio, uomo dagli interessi culturali monotematici: «Re Artù» – come l’aveva soprannominato una delle sue varie amanti – si dilettava nella lettura di classici (Shakespeare, Shelley, Byron) in lingua originale, strappava elogi a Thomas Mann, che ne venerava le performance dal vivo, suscitò l’ammirazione incondizionata di Benedetto Croce, che si adoperò affinché gli fosse conferito il dottorato onorario all’Università di Oxford: Toscanini rifiutò il riconoscimento, così come avrebbe rifiutato, anni dopo e per la stessa invincibile ritrosia (a lungo scambiata per scontrosità), la nomina a senatore a vita, firmata dal presidente Einaudi.
Sachs dà anche ampio spazio alla componente ideologica del musicista, che nel 1919 si ritrovò candidato alle elezioni politiche con i Fasci di Combattimento, in lista con Mussolini e Marinetti. Nessuno di loro venne eletto eToscanini, vicino per vocazione ad ideali socialisti, avrebbe abbandonato in fretta l’attività partitica e rinnegato i sodali della prima ora, fino a affermare, all’indomani della marcia su Roma: «Se avessi il coraggio di uccidere un uomo, ucciderei Mussolini».
Il maestro ribadì in seguito, e a più riprese, la sua totale avversione alle dittature destrorse, rinunciando a dirigere in Italia, in Germania e in Austria; la Scala prima, poi i festival di Bayreuth e Salisburgo lo inseguirono e supplicarono inutilmente di concedersi. A confronto con Hitler e con Mussolini, che in Toscanini aveva individuato un testimonial inattaccabile per l’Italia del ventennio, il musicista si giocò la faccia, a rischio della propria incolumità.
Dal racconto di Harvey Sachs, è inoltre possibile ricavare informazioni precise e interessanti sulle relazioni che Arturèn (così veniva chiamato il direttore da bambino) intrattenne con altri grandi musicisti dell’epoca, facendoci apprezzare compiutamente il valore di una vicenda che, per respiro e vivacità, seppe proiettare la cultura italiana nella più appagante delle orbite internazionali. Con Puccini, si sa, tra reciproche frecciate e slanci di cordialità, fu un alternarsi di amore e odio; con Richard Strauss solo odio, o qualcosa del genere. Mahler non accolse con piacere l’arrivo di Toscanini a New York, riferisce Sachs, ma non gli fece quella guerra che Alma – le cui memorie si spingevano, spesso, sopra le righe – pretendeva di riferire. Tra i direttori d’orchestra, Furtwängler non ebbe neppure la grazia di dissimulare la sua invidia nei confronti del più anziano collega; il quale trovò invece parole gentili per il giovane Bernstein e amò come un figlio Guido Cantelli, la cui morte, a trentasei anni in un incidente aereo, nessuno ebbe il coraggio di riferirgli.
Accorgimenti strutturali
Quanto alla sua portata innovativa, sono ben ventiquattro i titoli d’opera che Toscanini tenne a battesimo durante la propria carriera, una cifra enorme se paragonata agli standard odierni, sebbene è ovvio che l’effervescenza di quegli anni non trovi, oggi, adeguati paragoni. Il carisma e l’autorità di questo genio musicale, piccolo di statura e immensamente tenace, furono tali da consentirgli di imporre alla dirigenza di molti grandi teatri una serie di accorgimenti strutturali (interventi sul palco e sulla buca, ampliamento degli organici, disposizione delle luci di scena) che li resero significativamente più moderni. Nell’Italia arroccata sulle proprie posizioni, a difesa dell’opera e specialmente di quella nazionale, Toscanini lavorò alla rinascita di una cultura sinfonica europea che ignorasse le barriere geografiche, e affermò uno stile teatrale in cui il virtuosismo, sebbene inequivocabile, apparisse come un mezzo espressivo e non come un fine. A modo suo, e non solo per l’epoca, Toscanini fu un grande visionario.
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