George Stubbs, «Cavalle e puledri»
Alias Domenica

Razza, origine e storia di una parola maledetta

George Stubbs, «Cavalle e puledri», 1764-1765, Londra-New York, Dickinson Gallery

Saggi Contro l’aberrazione nazista, il grande filologo ebreo viennese Spitzer rilanciò l’etimologia spirituale «ratio»; ma Contini scovò, con arguzia etica, quella equina («haraz»): Lino Leonardi, «Razza» (il Mulino)

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 17 novembre 2024

Per alcuni mesi, all’indomani della caduta del nazifascismo e della proclamazione della Repubblica italiana nel giugno del 1946, l’Assemblea Costituente discusse un dettaglio spinoso del testo di quello che sarebbe diventato l’articolo 3 della Costituzione. Nel nitore della sua formulazione, la parola razza fu percepita da qualcuno come una macchia, un relitto ripugnante di quell’ideologia di regime che aveva condotto alla deportazione degli ebrei e allo sterminio: perché non usare stirpe al posto di razza, «lasciando quest’ultima ai cani e ai cavalli»? La parola «maledetta» – così la definì Meuccio Ruini, che presiedeva la Commissione dei 75 – non venne tuttavia sostituita, prevalendo la volontà di non ignorarla, oggi diremmo di non dimenticarla, perché fosse chiaramente espressa la sua condanna e con essa quella delle aberrazioni della politica razziale fascista.

A negarla, quella parola, e anzi a svuotarla di senso, è intervenuta negli ultimi decenni la comunità scientifica dei genetisti, dimostrando che non esiste nessuna realtà biologica riconoscibile nel DNA umano identificabile come ‘razza’. Una verità che risponde al passato ma anche ai suoi rigurgiti ciclici: perché è proprio su una presunta identità biologica, genetica, che il razzismo nazifascista ha fondato l’idea di una razza umana superiore e di razze umane inferiori, raccogliendo la teorizzazione discriminatoria sull’identità di razza che si era fatta spazio in Europa nel corso del XIX secolo.

Il caso ha voluto che di questo pestilenziale guscio vuoto, di questa parola senza sostanza ma tuttora caricata di un potere abnorme, per lungo tempo sia rimasta incerta l’etimologia, l’origine che aggancia le parole alla loro realtà più remota, dove il linguaggio sembra scaturire direttamente dalla materialità delle cose. La storia della sua avventurosa ricostruzione, che iniziata negli ultimi decenni dell’Ottocento ha attraversato buona parte del Novecento, ha finito così per intrecciarsi alla storia della sua manipolazione al servizio della propaganda razziale, ma anche alle vicende, scientifiche e umane, dei celebri linguisti che vi si sono confrontati.

A raccontarla, riuscendo nella difficile impresa di restituire una puntuale documentazione linguistica attraverso una narrazione trascinante e perfettamente calibrata, è un libro di Lino Leonardi, filologo romanzo e docente alla Scuola Normale di Pisa: Razza Preistoria di una parola disumana (il Mulino «Upm – Parole nostre», pp. 160, euro 14,00). Ed è proprio l’aggettivo del titolo, disumana, la chiave che svela l’assunto portante di questo prezioso saggio: la derivazione di razza da un termine in origine usato per gli animali (nella fattispecie, cavalli e porci…) e le tragedie storiche legate alla sua estensione, impropria quanto degradante, alla specie umana. Una disumanità doppia, quindi, etimologica ed etica. Quella di razza e delle sue origini è infatti una storia che si può leggere anche come il racconto di una resistenza intellettuale, di una lotta della scienza linguistica, che nell’ora più buia del secolo scorso ha cercato di porsi come fragile argine alla barbarie.

È tra il 1933 e il 1941, tra l’ascesa di Hitler al potere e l’inizio dello sterminio, che il grande filologo ebreo viennese Leo Spitzer pubblica due articoli nei quali propone per razza l’etimo latino ratio, «ragione», ma anche «specie, qualità» nei testi di sant’Agostino e Tommaso d’Aquino: un’ipotesi che si era affacciata già più di mezzo secolo prima nelle teorie dell’italiano Ugo Angelo Canello, ma che Spitzer carica di un cruciale portato ideologico, affermando per razza «un’origine altamente spirituale», nel pervicace tentativo di abbattere il presupposto biologico del razzismo nazifascista con l’astrazione di una voce teologica.

Qualche anno più tardi, mentre il dibattito linguistico su razza si arricchiva di altre proposte più o meno solide e in parte, accanto a quella prevalente di ratio, tuttora registrate in dizionari e strumenti lessicografici, una più mirata esplorazione delle attestazioni medievali condotta da Gianfranco Contini avrebbe rovesciato l’idea di Spitzer, spostando l’etimo di razza letteralmente dalle stelle alle stalle: non il latino ratio ma il francese haraz, «allevamento (di cavalli)», «mandria di stalloni e giumente per la riproduzione», si rivelava alla base delle forme razza, raza e le più genuine razzo e arazzo, che dall’italiano antico sarebbero poi passate alle altre lingue europee. Con il plauso dello stesso Spitzer, Contini rivendicò con insuperabile arguzia il significato ancora una volta etico della scoperta: «Un attonimento retrospettivo merita (…) tanto sciupìo di platonismo, neoplatonismo, patristica, scolastica, idealismo vòlto a suffragare la nobile derivazione. Per l’appoggio terminologico di tanta abiezione, ferocia e soprattutto stupidità, quanto è più ricreativo avergli scovata una nascita zoologica, veterinaria, equina!». E se è vero che nomina sunt consequentia rerum, il saggio di Leonardi invita anche a una riflessione sul presente, sull’attualità di una storia di parole non ancora finita.

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