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Razmig Keucheyan, la natura è sempre una forza politica

Razmig Keucheyan, la natura è sempre una forza politica

TEMPI PRESENTI Parla il sociologo francese, autore del libro «I bisogni artificiali» edito in Italia per ombre corte. «Le classi subalterne sono quelle le più colpite dall’inquinamento dalle catastrofi naturali. La crisi ecologica è stata causata dal capitalismo industriale, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla sua attuale esplosione»

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 16 maggio 2021

Razmig Keucheyan, sociologo e militante della sinistra radicale, è una delle voci più interessanti tra quelle che hanno affrontato l’attuale crisi ecologica da una prospettiva marxista. Uno dei suoi saggi più importanti, non ancora disponibile in italiano, è Hémispère gauche (2010), in cui traccia una cartografia delle teorie critiche che si sono succedute a partire da Seattle. A questo sono seguiti La natura è un campo di battaglia (2014) e I bisogni artificiali (2019), entrambi tradotti in italiano per i tipi di ombre corte (il primo nel 2019 e il secondo nel 2021) e recensiti su queste pagine.

Nel primo Keucheyan propone un’ecologia politica in grado di mettere la natura al centro degli interessi della politica trasformativa. Nel secondo, individua nella lotta al consumismo una delle chiavi di volta per coniugare anticapitalismo ed ecologia a favore di un socialismo del XXI secolo.

Uno degli aspetti fondamentali del suo lavoro è la politicizzazione della natura. Che cosa l’ha spinta a sviluppare questo interesse?
Le società moderne sono in uno stato di crisi permanente, più o meno intenso a seconda del periodo storico. Mi hanno sempre interessato quelle che potremmo chiamare le «regole di trasformazione», le regole cioè che governano il passaggio da un tipo di crisi a un altro. Per esempio, mi interessa il modo in cui una crisi finanziaria diventa politica, come è stato il caso della crisi dei subprime del 2008 che ha comportato la crisi del debito sovrano della Ue nel 2010. Oppure il modo in cui l’attuale crisi demografica in Cina potrebbe determinare, negli anni a venire, una crisi politica ed economica.
Ci sono molti modi per definire la crisi ecologica e il più interessante è quello che la considera, in un modo o nell’altro, sottesa a tutte le altre o quantomeno che vi contribuisce. Il comune denominatore di tutte le crisi, talvolta evidente, talaltra nascosto. Il mio interesse per la questione ecologica prende le mosse dalla propensione alla crisi delle società moderne.

In molti stanno sviluppando una politica della natura, per esempio, Latour o Viveiros de Castro. Come si posiziona in questo ambito intellettuale?
La natura è sempre stata una forza politica. Bisogna però domandarsi se sia davvero una forza ontologicamente autonoma nel senso suggerito dagli autori menzionati. Certo, le risorse naturali influenzano le relazioni di potere. Per esempio, Timothy Mitchell in Carbon Democracy ha evidenziato come le caratteristiche «oggettive» del carbone e del petrolio non solo hanno determinato le modalità della loro estrazione e commercializzazione, ma hanno anche influenzato classi sociali e istituzioni politiche. Ritengo, tuttavia, che una forza politica nel senso pieno del termine debba essere in grado di proiettarsi nel futuro, di delineare strategie, di plasmare rappresentazioni e intenzionalità collettive.

Nei suoi saggi ricorri spesso al termine Antropocene. Perché non Capitalocene?
È corretto sostenere che la crisi ecologica è stata causata principalmente dal capitalismo industriale, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla sua attuale «esplosione». Il capitalismo è antecedente alla rivoluzione industriale, ma è stata questa a conferirgli alcuni dei suoi tratti più devastanti sull’ambiente; a questo riguardo si pensi in particolar modo alla sua dipendenza dall’energia fossile. Senza di questa il capitalismo sarebbe rimasto un sistema socioeconomico «locale», non si sarebbe globalizzato nel modo in cui lo ha fatto a partire dal XIX secolo. Pertanto: Capitalocene, senza alcun dubbio. Questo, però, non vuol dire che il concetto di Antropocene sia poco utile. Certo, esistono disuguaglianze ambientali dal momento che le classi subalterne sono quelle più colpite dall’inquinamento, dalle catastrofi naturali e dal collasso della biodiversità. Ma, almeno fino a un certo livello, anche le classi dominanti sono esposte a questi fenomeni. Per esempio, gli incendi ormai endemici in California distruggono anche i quartieri ricchi. Abbiamo, insomma, necessità di sviluppare un pensiero che ci permetta di comprendere la novità della condizione presente e, per far questo, non possiamo abbandonare il concetto di Antropocene. Capitalocene ed Antropocene non sono nozioni contrapposte ma in rapporto dialettico.

Che relazioni ci sono tra il razzismo ambientale e il razzismo denunciato da movimenti quali Black Lives Matter?
L’espressione razzismo ambientale è stata coniata dal sociologo americano Robert Bullard e, negli anni ’80, ha accompagnato lo sviluppo del movimento per la giustizia ambientale. La questione ecologica non è al centro degli interessi di Black Lives Matter. I network militanti contro il razzismo ambientale sono però diffusi negli Stati Uniti e connessi a Black Lives Matter. Lo stesso accade in altre parti del mondo, per esempio in America Latina. A mio parere, queste reti militanti rappresentano uno dei più creativi tra i movimenti sociali contemporanei.

Un altro dei suoi fronti di lotta anticapitalista è la critica dei bisogni artificiali. Come pensa sia possibile sviluppare una politica efficace contro l’immensa impresa consumista?
Il consumismo non discende da un qualche desiderio naturale che spingerebbe a possedere sempre più cose. Al contrario, è qualcosa di socialmente costruito e, per di più, è un fenomeno relativamente recente. Alcuni storici fanno risalire le origini della società del consumo al Rinascimento. Secondo me, però, è solo a partire dalla seconda metà del XX secolo che il consumo è stato «massificato», grazie soprattutto a tre fenomeni: la pubblicità, il credito e l’obsolescenza (più o meno) programmata. Le aziende hanno speso cifre crescenti per pubblicizzare i loro prodotti, la regolamentazione del credito al consumo è stata progressivamente allentata in modo da far sì che si potesse acquistare indebitandosi, e le merci sono state assemblate con materiali di sempre più scarsa qualità in modo da facilitarne un continuo ricambio.
Combattere il consumismo e il suo impatto catastrofico sul pianeta significa, tra le altre cose, abolire questi fenomeni o quantomeno limitarne gli effetti. Fenomeni fondamentali per la creazione dei bisogni artificiali: il nostro mondo sarebbe molto diverso se fossimo in grado di arrestare la colonizzazione della vita quotidiana da parte della pubblicità.

Ma basta questo per muoversi verso il socialismo?
Il capitalismo è produttivista: inizia con la produzione di merci e prosegue con la creazione di bisogni artificiali per poterle vendere. Dietro al produttivismo c’è la competizione: i capitali privati competono tra loro, il che comporta una crescita esponenziale della produttività. Il consumismo diventa così una necessità: si deve consumare per far spazio alla generazione successiva di merci. Una volta assunta questa prospettiva è facile definire cosa sia il socialismo. Per il socialismo i bisogni vengono prima della produzione. E quali siano i bisogni da soddisfare dovrebbe essere deciso con procedure democratiche e deliberazioni collettive – non dall’industria e dal mercato. Certo, questo pone una serie di sfide politiche e pratiche, sfide che, però, non sono insormontabili. La produzione dovrà soddisfare i bisogni democraticamente stabiliti, in quanto compatibili con regole ambientali e sociali decise collettivamente. L’ecologia è la continuazione della tradizione socialista.

Per concludere, come interpreta l’attuale pandemia?
Molto è stato scritto e ancora di più sarà scritto mano a mano che si individueranno i molti fattori che hanno causato questa pandemia. Ma ciò che dovremmo domandarci è se questo evento, che quasi nessuno aveva previsto, sarà in grado di portare, per usare una terminologia gramsciana, allo sviluppo di un nuovo senso comune. Un senso comune in grado di riconoscere che il nostro stile di vita sta mettendo a rischio la possibilità stessa della vita sulla Terra. Nel XIX e XX secolo, il movimento operaio ha trasformato la società non perché abbia promosso idee astratte, quali eguaglianza e giustizia – che pure sono importanti –, ma perché ha fatto sì che nella vita di tutti i giorni si potessero esperire nuove relazioni sociali di solidarietà, cura e auto-organizzazione. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno è la capacità di inventare esperienze analoghe nell’ambito dei movimenti ecologisti. Forse, ciò che stiamo vivendo con questa pandemia può contribuire a far sì che tali esperienze possano svilupparsi.

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