Raymond Depardon, il dolore dello scatto
Fotografia Un’intervista con il reporter e cineasta francese, in mostra alla Triennale di Milano. «L’incontro con Basaglia fu importante, venivo da un periodo difficile. Mesi prima, in Ciad, ero stato obbligato a realizzare delle 'proof of life' degli ostaggi. Mi segnò profondamente»
Fotografia Un’intervista con il reporter e cineasta francese, in mostra alla Triennale di Milano. «L’incontro con Basaglia fu importante, venivo da un periodo difficile. Mesi prima, in Ciad, ero stato obbligato a realizzare delle 'proof of life' degli ostaggi. Mi segnò profondamente»
Sembra che il giallo sia il colore dell’intelletto, del calore, ma anche della paura, della follia. Nell’allestimento concepito per la mostra Raymond Depardon. La vita moderna alla Triennale di Milano / Fondation Cartier pour l’art contemporain (fino al 10 aprile), sotto la direzione di Hervé Chandès, l’artista Jean Michel Alberola con la scenografa Théa Alberola, in dialogo con il grande fotografo e cineasta francese, ha scelto proprio questo colore per le pareti della sezione dedicata a San Clemente che Depardon ha realizzato nel manicomio dell’isola veneziana poco prima della chiusura.
Tappa conclusiva di un percorso di trecento fotografie e due film, questa emozionante monografica inizia con i grandi spazi dell’errare (Errance, 1999 -2000) e, attraverso serie esposte per la prima volta (tra cui quelle a colori di Glasgow del 1980) si conclude proprio con le foto in bianco e nero di San Clemente (1977-1981) che, con lo sguardo partecipe dell’autore, portano alla luce realtà celate di una diversa «normalità».
Quella di Raymond Depardon (Villefranche-sur-Saône 1942, vive a Clamart) è la terza mostra che si inserisce nel progetto di «geocultura» condiviso dall’istituzione italiana con la Fondation Cartier pour l’art contemporain, che da anni collabora con il fotografo: tra i progetti editoriali più recenti Rural (2020) e Communes (2021), le cui serie sono esposte a Milano.
La vita di campagna tema della sezione «Rural» (1990 -2018), presente anche nel racconto «La ferme de Garet» (1995) e in «La Chambre» (2020), è un punto fermo nel suo sguardo. È proprio nella fattoria di famiglia, a Villefranche-sur-Saône, che scattò le sue prime foto con la macchina fotografica di suo fratello. Cosa c’era di quella vita che le andava stretto quando nel 1958, a 16 anni, decise di trasferirsi a Parigi?
In realtà, i miei genitori avevano capito molto prima di me che non avrei mai rilevato la fattoria di famiglia né sarei diventato un agricoltore. Avevano notato che avevo una passione per la fotografia: pensavano fosse l’eredità di un antenato, un tale Auguste che era andato all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Mio fratello Jean, più grande di me di quattro anni, se n’era già andato a Grenoble, perché allora gli studenti più bravi erano segnalati alle ditte direttamente dalle scuole – e lui era molto bravo – ma fortunatamente per me era tornato a casa. Perciò, nel 1958, potei stabilirmi a Parigi. Prima ancora, tra i miei 14 e 16 anni, mio padre – che non voleva che rimanessi inattivo – mi portò in città dove c’era un ottico-fotografo e gli chiese di prendermi a lavorare come apprendista. All’epoca, non ero assolutamente bravo a fotografare e mi sentivo anche un po’ in colpa: avevo davanti a me un paesaggio rurale magnifico con quella bellissima fattoria, ma non ero proprio in grado di scattare fotografie.
Continuare a fotografare una quotidianità connessa al paesaggio rurale si può leggere come la riappropriazione di una memoria che sentiva appartenerle?
Bon… Effettivamente, allora, lasciare quella fattoria stupenda per andare a fotografare Brigitte Bardot e il generale de Gaulle aveva un significato diverso rispetto a oggi, che potrebbe sembrare addirittura ridicolo (ride)… Ma io ero diverso dai miei colleghi che erano essenzialmente cittadini ed erano terrorizzati all’idea di andare in Cile nel ’71 quando c’era Allende, o magari viaggiare per fotografare i nomadi, gli agricoltori in Ciad. Non avevo paura, anzi sentivo una complicità nei confronti delle persone che ritraevo. Per quarant’anni, ho viaggiato per tutto il mondo scattando foto a volte utili, altre inutili, per poi rendermi conto di quanto erano stati importanti quei primi 16 anni della mia vita che avevo trascorso nella fattoria con la mia famiglia.
Negli anni ’90 sentii che dovevo tornare lì. Tutti mi dicevano di lasciar perdere perché ormai gli agricoltori non esistevano più e non era certo un argomento alla moda. Per me, era però importante che tornassi alla campagna. Ho fatto il giro del mondo per ritrovarmi a casa.
Su «Paris Match» del 3 settembre 1960 fu pubblicato il suo primo reportage sulla missione Sos Sahara. «Ho imparato dal lavoro: una scuola bellissima», ha affermato. C’è una regola che si è imposto fin dagli esordi?
Una regola non saprei, ma all’epoca per me scattare una fotografia rappresentava una gran fatica. Nasceva quasi da un dolore. Ero molto complessato perché quello che era il mio punto forte, lo vivevo come la mia più grande debolezza. Ero un po’ timido, non sapevo esprimermi. Scattare fotografie era un miracolo che nasceva da una parte dal dolore e, dall’altra, era come dare alla luce un bambino. Per questo parlo di miracolo. Ho avuto comunque la fortuna di conoscere fotografi e giornalisti del dopoguerra estremamente interessanti, a partire dell’agenzia Dalmas (la prima con cui collaborò dal 1960-66, seguita dalla Gamma, fondata dallo stesso Depardon insieme a Hubert Henrotte, Hugues Vassal e Léonard de Raemy, a cui si unì anche Gilles Caron e dal 1978 alla Magnum, ndr). Mi dicevano: «Raymond non consegnare a nessuno le tue fotografie, mettitele nelle mutande o nelle calze, ma tienile per te!».
E come mai le davano questo consiglio?
Mi riferisco soprattutto all’Algeria, nel 1960: un viaggio fondamentale che mi ha segnato e in cui ho scoperto l’Africa, il deserto. Allora c’era una censura molto forte relativamente a tutto ciò che accadeva in Algeria, è per questo che gli altri fotografi mi dicevano di tenere le foto per me. Infatti, fui convocato da un capitano della Legione straniera nel suo ufficio. Mi disse che avevo foto del contingente e che non le potevo pubblicare: gliele avrei dovute consegnare subito. Mentii – avevo 18 anni un’età in cui si è bravissimi a dire bugie (ride) – mi misi a piangere confessando che non avevo più quelle immagini, le aveva ormai un infermiere che era arrivato con l’elicottero per portare via dei fuggitivi. Lui neanche mi perquisì. Dopo numerose di peripezie le fotografie arrivarono in Francia. Fu il mio primo grande scoop!
«Il fotografo è pieno di dubbi. Niente lo calmerà»: è una sua affermazione riportata nella pagina web di Magnum. La fotografia può aiutare ad avere un punto di vista critico sulla realtà?
Sì, certamente. La fotografia aiuta ad avere un punto di vista critico e pure a riflettere. Cartier-Bresson diceva che poteva essere anche un’arma. Bisogna sempre relativizzare perché un’immagine nasconde sempre delle trappole. Trasmette un’impressione, un’interpretazione ma dietro c’è l’autore. A volte è necessario diffidare della fotografia. La sua forza è quella di offrire uno sguardo sul mondo, ma la sua debolezza è che non esiste il fuori campo. Devo aggiungere, però, che da anni leggo ogni giorno due quotidiani – Libération e Le Monde – e trovo sempre una fotografia che mi insegna qualcosa, più dell’immagine trasmessa alla televisione.
Proprio i suoi reportage sugli ospedali psichiatrici italiani, realizzati tra il 1977 e il 1981, poco prima dell’adozione della Legge 180 – forse conosceva anche «Gli esclusi» di Luciano D’Alessandro e «Morire di classe» di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin – sono stati strumenti potentissimi nella denuncia della condizione disumana dei malati lì internati…
Mi chiedo ancora oggi cosa mi abbia motivato a venire in Italia, a Trieste, per incontrare Basaglia. Un soggetto completamente estraneo al mio mondo dell’epoca fatto di deserti e d’Africa. Penso che tutto sia partito da un articoletto che parlava della situazione della psichiatria alternativa in Italia. In Francia, invece, non se ne parlava affatto. Telefonai al giornalista che aveva scritto quel testo che si presentò al ristorante parigino Closerie des Lilas insieme a uno psichiatra, un signore distinto che conosceva molto bene la situazione italiana. Fu lui a dirmi che dovevo andare a Trieste. Sono arrivato verso il ’77 ed è come se avessi preso la staffetta dai fotografi italiani che mi avevano preceduto. L’incontro con Basaglia fu molto importante anche perché venivo da un periodo difficile. Qualche mese prima ero stato in Ciad, dove ero stato obbligato a realizzare delle proof of life degli ostaggi e se per qualcuno, alla fine, è stata un’avventura, a me segnò profondamente. Anche dal punto di vista personale non ero sereno per un amore non corrisposto. Ho continuato a chiedermi spesso il perché di quelle foto, proprio io che avevo avuto un’infanzia molto felice nella bellissima fattoria, con dei genitori che non mi avevano mai picchiato. Allora, perché quella paura di venire richiuso? In realtà, non ne potevo più di fotografare kalashnikov e persone con le spalle al muro. Certo, avrei potuto fare altro, magari le foto delle starlette…
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