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Rave party: i creatori del suono

Rave party: i creatori del suono

Scena musicale Dai sintetizzatori ai ritmi incalzanti al punk hardcore

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 10 dicembre 2022

In un’intervista a Mixmag del 2020, Carl Cox, dj e producer inglese techno-house tra i creatori del suono della prima scena rave, ha spiegato bene la genesi dei party illegali: «I rave sono stati una reazione alle discoteche, quei club che chiudevano alle 2 del mattino. Si beveva una birra, si faceva a botte, si mangiava un kebab e si tornava a casa per le 3 o le 4 del mattino. Con la scena rave, invece, aspettavi che sorgesse il sole. E quando sorgeva, andavi avanti fino alle 8 o alle 9 del mattino».

Quando i suoi connazionali Orbital, nel 1989, pubblicano il primo singolo, Chime, la cassetta inizia a circolare tra pochi cultori ma poi, grazie a una prima stampa in vinile di 1000 copie arriva ai dj dei rave party e il successo è tale che, nel 1990, viene ristampato in più versioni e il duo viene invitato a Top Of The Pops. Si tratta di un brano realizzato con un sintetizzatore e una drum machine in uno studio casalingo, che porta i suoni degli anni Ottanta in una dimensione «cosmica» ma non ha un beat martellante. Con l’arrivo degli anni 90 i sintetizzatori restano ma i ritmi diventano più incalzanti, i suoni hardcore proliferano e i bassi pesanti si fanno sempre più avanti.

Il disco che rappresenta al meglio questo periodo d’oro della scena rave è Experience, l’esordio di un gruppo dell’Essex, i Prodigy. Il secondo singolo estratto dall’album, Everybody in the Place, ha una potenza dirompente e in vari brani sono presenti anche forme primordiali di jungle e drum and bass.

Fabio, londinese di Brixton considerato tra i padrini di quest’ultimo «caotico» genere – che trasmette prima di tutto nelle sue conduzioni su una radio pirata – parlando dell’evoluzione dei ritmi elettronici ha sottolineato come la diffusione, nella seconda metà degli anni Ottanta, dell’ecstasy abbia «cambiato tutto»: «Ricordo la prima serata house a cui ho partecipato – ha dichiarato a Skiddle. Ho varcato la porta del club e sono rimasto incredulo di fronte alla folla e al modo in cui reagiva alla musica. Con Grooverider (il suo socio, nda) non avevamo mai visto niente del genere prima. Eravamo completamente sobri, non avevamo bevuto nemmeno un drink ed eravamo semplicemente sbalorditi. Erano anni che andavamo nei club, ma non avevamo mai visto niente del genere».

L’house diventa, appunto, sempre più il ritmo dei club ma i dj europei più audaci iniziano a darle meno spazio, soprattutto se prodotta negli Stati Uniti, a favore di ritmi più grezzi, irregolari e crudi prodotti da gente più vicina a loro. In particolare Fabio e Grooverider si concentrano sull’ascesa di jungle e drum and bass perché le hanno viste nascere e, a differenza del nord dell’Inghilterra, a Londra e dintorni questi ritmi frenetici dai suoni oscuri hanno molta presa, soprattutto nei rave.

Fondatore, insieme al compianto Riccardo Petitti, di Agatha crew, il romano Andrea Lai, giornalista e attivista della bass music, racconta bene questi passaggi e le differenze tra le tipologie di rave: «Il suono dei primi rave (fine degli anni Ottanta) nella campagna inglese era vario. I dj mettevano dischi acid house, electro, breakbeat e dischi della techno che era stata immaginata da pochi anni a Belville (Detroit). A ballare c’erano giamaicani, bianchi, indiani e caraibici. La crescita della popolarità delle feste illegali portò alla diffusione di ecstasy di qualità peggiore e di musica via via meno eterogenea. Nei primissimi anni Novanta una versione europea della techno entrò con forza nella scena rave, gabber e ritmi super mascolini e bianchi presero il posto della dance di matrice nera mentre le nuove ricette di droga inducevano uno ‘sfattonamento’ con il quale la cultura nera non era a proprio agio.

Per un raver di cultura indiana non era decoroso stare strafatto sotto cassa, come non lo era per un giamaicano un po’ tradizionalista. Così, lentamente, la gran parte dei rave ha preso il suono della eurodance bianca, spesso testosteronica e aggressiva, mentre la parte di pubblico multietnica e poliritmica si è spostata verso altre feste il cui suono non era ancora jungle ma era in evoluzione, in parte grazie alla spinta innovativa che aveva guidato la musica durante la nascita dei rave». Non tutto avviene in Inghilterra, perché il resto d’Europa non sta a guardare.

Se a Rotterdam nasce la gabber, ritmo che estremizza la techno aumentando i bpm (come, più o meno, fa anche la free tekno), Berlino rilancia con il digital hardcore, genere lanciato dai militanti Atari Teenage Riot e in cui il punk hardcore incontra l’elettronica più sporca e di impatto che va per la maggiore proprio nei party illegali. Suoni sempre più irruenti, insomma, che forgiano le evoluzioni dei rave, condizionate anche dalla diffusione di droghe diverse, come speed e ketamina, così come dagli avvenimenti sociali. Con la fine degli anni Novanta, infatti, la cosiddetta Generazione X perde molti riferimenti e tutto quello che aveva creato sembra ridimensionarsi. Ma l’eredità dei rave viene raccolta dalle generazioni successive.

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